Indagare i tumori con un metodo rivoluzionario basato sulla risonanza magnetica per immagini e sullo studio del movimento dell’acqua

Università di Torino 13 Feb 2024



Un team di ricercatori dell’Università di Torino, guidati dai Proff. Giuseppe Ferrauto e Silvio Aime, ha sviluppato un metodo basato sulla risonanza magnetica per immagini (RMI) che va oltre le tradizionali tecniche di imaging, consentendo una valutazione più accurata della malignità dei tumori e dell'efficacia dei trattamenti. Si tratta di un nuovo approccio che promette di cambiare il modo in cui osserviamo i tumori per capirne l’aggressività, a testimonianza del fatto che la scienza avanza di pari passo con la tecnologia.

 Capire la complessità dei tumori è fondamentale, poiché ogni tipo di tumore può rispondere in modo diverso ai trattamenti. La chiave per un trattamento mirato ed efficace è localizzare con precisione il tumore e determinare il grado di malignità. La risonanza magnetica (MRI) è un potente strumento che fornisce immagini altamente dettagliate dei tessuti interni del corpo umano, con un'elevata accuratezza e senza rischi per il paziente. Il nuovo metodo sviluppato a Torino va però ben oltre, spingendosi a visualizzare dettagli funzionali delle cellule tumorali.

 Le novità del nuovo metodo CEST-MRI

 Durante una sessione di risonanza magnetica, il paziente si trova all’interno di un “tubo” dove è presente un forte campo magnetico. Mediante l’irradiazione con onde radio, assolutamente non dannose per il corpo umano, gli atomi di idrogeno dell’acqua presente nei tessuti nel corpo vengono “magnetizzati”. Questo processo fornisce immagini tridimensionali dei tessuti, con una estrema risoluzione spaziale. Spesso, al fine di migliorare la capacità diagnostica della tecnica, ai pazienti vengono iniettati, nei vasi sanguigni, agenti di contrasto a base di gadolinio. Tali molecole, escono dai vasi del tumore e si concentrano nello spazio extracellulare, migliorando la definizione delle immagini e facilitando la localizzazione del tumore.

 Il team italiano è leader mondiale di una particolare tecnica di RMI chiamata CEST (Chemical Exchange Saturation Transfer), una sorta di “trucco” che sfrutta lo scambio di protoni tra l'acqua e altre molecole al fine di aumentare la sensibilità della risonanza magnetica e di ottenere importanti informazioni sull’ambiente chimico.

 Nel lavoro recentemente pubblicato su Angewandte Chemie Int. Ed., una delle più prestigiose e storiche riviste in ambito chimico, la Dott.ssa Enza Di Gregorio, ricercatrice di UniTo, ha mostrato come utilizzare questa metodologia per “osservare” molecole presenti all’interno delle cellule tumorali, come la creatina. Ma la vera innovazione e potenzialità del metodo sviluppato è stata quella di utilizzare queste molecole come “spie” interne alla cellula, per verificare cosa succede nella cellula tumorale. In questa maniera, si riescono ad avere informazioni più dettagliate sulle cellule tumorali e si è trovato un metodo per studiare, tramite la risonanza magnetica, il potenziale aggressivo del tumore.

 Obiettivi e prospettive

 Le cellule tumorali sono metabolicamente più attive delle cellule sane e hanno diverse proteine e canali di trasporto nella loro membrana. Tramite questi canali e questi trasportatori, la cellula tumorale è in grado di recuperare le sostanze nutritive di cui ha bisogno (zuccheri, amminoacidi etc.) e di espellere i prodotti del metabolismo cellulare. Attraverso questo sistema di trasporto passa anche l’acqua. L’acqua fluisce quindi massicciamente attraverso la membrana cellulare, in quantità che rispondono al metabolismo cellulare. Più la cellula tumorale è attiva (e aggressiva) maggiore è la quantità di acqua che attraversa la membrana.

 Usando il metodo CEST sopra riportato, i ricercatori hanno osservato cambiamenti nelle immagini RMI dopo l'aggiunta del mezzo di contrasto a base di gadolinio. Questi cambiamenti riflettono la permeabilità della membrana cellulare del tumore all'acqua, fornendo informazioni cruciali sulla sua aggressività. Il team ha testato con successo il metodo su modelli murini di tumore al seno, e i risultati sono promettenti. Oltre a rivelare dettagli sulla malignità, il metodo si è dimostrato molto importante nel permettere di valutare l’efficacia di una terapia farmacologica. I ricercatori hanno infatti dimostrato come il farmaco chemioterapico Doxorubicina abbia ridotto immediatamente la permeabilità all'acqua, indicando una risposta positiva al trattamento.

Il maggiore punto di forza del metodo sviluppato, che fa ben sperare per una rapida applicazione clinica, è il fatto di utilizzare strumenti di RMI e mezzi di contrasto a base di gadolinio già presenti e utilizzati nella pratica diagnostica clinica. Si richiederà quindi al paziente, durante il normale protocollo diagnostico RMI, di “pazientare” altri 3-4 minuti per un’ulteriore analisi, che però fornirà al medico importanti ulteriori informazioni diagnostiche. Considerando ciò è nato l’interesse da parte dell’IRCCS SDN Synlab di Napoli, guidata dal Prof. Marco Salvatore, di proporre ai pazienti il metodo.

 

Cooperazione e interdisciplinarietà

Come in moltissimi approcci scientifici moderni, l’interdisciplinarietà è il punto di forza. Questo lavoro è stato reso possibile grazie alla collaborazione di biotecnologi e chimici esperti di imaging molecolare e oncologia sperimentale, medici radiologi, immunologi esperti di oncologia e sviluppo di modelli murini, fisici esperti di analisi di immagini. Solo mettendo insieme esperienze e conoscenza diverse, la scienza può significativamente contribuire allo studio di nuovi approcci per la diagnosi avanzata e il trattamento di malattie complesse, come i tumori.

“Questo nuovo approccio alla risonanza magnetica potrebbe rappresentare una svolta nella nostra comprensione e nel trattamento dei tumori. Siamo entusiasti di vedere come questa tecnologia si evolverà e come potrà essere utilizzata per migliorare la vita di coloro che combattono contro il cancro. La ricerca continua, e con essa la speranza di un futuro più luminoso nella lotta contro questa malattia”, spiega il team che ha guidato lo studio.

 

Ultima modifica il Lunedì, 12 Febbraio 2024 11:42
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