Lo studio Risk of POP mixtures on the Arctic food chain, condotto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra (DISAT) e del Dipartimento di Economia, Metodi quantitativi e Strategie di impresa (DEMS), è stato pubblicato sulla rivista scientifica “Environmental Toxicology and Chemistry”, fra le principali a livello mondiale nei campi dell’Eco-tossicologia e della Chimica ambientale (S. Villa, S. Migliorati, G.S. Monti, I. Holoubek, M. Vighi, Risk of POP mixtures on the Arctic food chain; DOI: 10.1002/etc.3671).
Gli inquinanti organici persistenti o POP (in inglese, Persistent Organic Pollutants) sono sostanze chimiche resistenti alla decomposizione in grado di essere trasportate a grandi distanze e di persistere nel tempo anche per decenni. Queste sostanze inquinanti tendono a spostarsi soprattutto verso le aree più fredde, ovvero i poli, e si depositano nei ghiacciai di montagna. Quali sono le conseguenze sugli organismi colpiti? Gravi alterazioni che danneggiano il sistema endocrino, la riproduzione e lo sviluppo. Un esempio: i casi di ermafroditismo fra gli orsi polari si manifestano con una frequenza molto maggiore rispetto ad altre specie.
Alcuni POP sono stati indicati come i più pericolosi a livello planetario: è la cosiddetta “Dirty Dozen”, o “Sporca dozzina”, che richiama il titolo di un famoso film. Per combatterli, coordinandosi a livello internazionale, negli anni Settanta è nata la Convenzione di Stoccolma, alla quale hanno aderito quasi tutti gli Stati del mondo. Fra le nazioni che fanno parte dell’ONU solo sei Paesi, tra cui gli Stati Uniti d’America e l’Italia, non aderiscono alla Convenzione, sebbene il bando o il controllo dei POP sia comunque attivo. Quello di Stoccolma è un accordo in costante evoluzione: dopo la “Sporca dozzina” altre sostanze sono state messe in discussione, con due opzioni: il bando totale o forti limitazioni. Se l’uso di sostanze come DDT e PCB è bandito o limitato da decenni, per altri POP gli interventi risalgono a pochi anni fa, come per il perfluoro ottano sulfonato, noto con l’acronimo PFOS. Per altri ancora il controllo, oggi, non è ancora attivo.
La novità sostanziale di questa ricerca consiste nel fatto di fornire una valutazione del rischio complessivo rappresentato dalla miscela di queste sostanze nocive, di individuare i più pericolosi fra i suoi componenti e ricostruire l’evoluzione storica del rischio dagli anni Settanta ad oggi. Il rischio legato a sostanze diffuse in grandi quantità in passato ma controllate da tempo (come DDT e PCB), seppur ancora alto, è sensibilmente diminuito. Ma la composizione dei POP è mutata negli anni e il contributo dei “nuovi” inquinanti (come il PFOS), ancora inadeguatamente limitati, è in aumento.
Secondo gli studiosi queste sostanze hanno un impatto anche sulla salute umana: significativo, in proposito, è il caso del popolo degli Inuit, esposto in passato ad un rischio paragonabile a quello stimato per gli orsi polari. Negli ultimi anni, la situazione è migliorata grazie a un radicale cambiamento degli stili di vita e ad una alimentazione non più basata sui prodotti della caccia e della pesca locali, ma dipendente in buona parte dalla distribuzione globalizzata.
«Questo lavoro è il primo tentativo di quantificare il rischio complessivo dei POP per l'ecosistema artico – ha detto Sara Villa, ricercatrice di Eco-tossicologia all’Università di Milano-Bicocca – e di definire una classifica al fine di evidenziare le sostanze chimiche più pericolose nella miscela». «I risultati dimostrano che le misure di controllo internazionali sono efficaci nel ridurre il rischio per gli ecosistemi – ha aggiunto Marco Vighi, Principal Investigator presso l’IMDEA Water Institute, già docente dell’Ateneo milanese – tuttavia è fondamentale estendere l’applicazione della Convenzione di Stoccolma ai POP esistenti non ancora controllati e ai “nuovi” contaminanti di recente o futura produzione».
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Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca