Fortissimo è l'impatto che le venti fotografie a colori, di cui consta l'esposizione, hanno sul visitatore della mostra. Attraverso di esse è comprensibile a pieno come il ricordo dei superstiti di quella strage è ancora vivido, intenso ed immutato a dispetto del trascorrere del tempo.
Un ricordo reso eterno dalle foto che le vedove e gli orfani di quel massacro rievocano tenendo nelle mani le immagini dei propri cari.
L'autrice, attraverso tale tecnica di fotografare individui che mostrano altre foto dimostra la centralità della relazione che intercorre tra la le immagini e la memoria nel processo di “ri-memorazione”. Un processo dall'alto valore simbolico ed allo stesso tempo storico e documentale.
Ma il soggetto delle fotografie della mostra non si esaurisce nelle vittime, nei sopravvissuti e nell'immutato legame affettivo tra di essi. L'obiettivo di Laura Cusano focalizza le difficili condizioni dei campi dove vivono i profughi il cui numero complessivo è tuttora da definire.
Secondo i dati forniti dalla UNRWA (United Nation Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) infatti, nonostante la registrazione dei residenti nei campi, non è possibile conoscerne il numero esatto ed allo stesso modo non risulta possibile quantificare il numero dei rifugiati palestinesi che vivono al di fuori dei campi.
All'interno dei campi dilagano fenomeni come analfabetismo e malattie psicologiche croniche come ha denunciato il FAFO (Institute for Applied social Science).
Lo stesso organismo, inoltre, ha in differenti occasioni sollevato la questione abitativa all'interno dei campi dove solo il 50% delle case ha accesso all'acqua potabile, il 57% è collegata ad un sistema fognario e quasi il 70% non è dotato di un impianto di riscaldamento.
Difficile credere che vivendo in queste condizioni, senza il sostegno economico, sociale e prima ancora psicologico, il ricordo delle stragi ed il legame affettivo che ancora lega i superstiti con i propri cari scomparsi, possa sfociare in qualcosa di diverso dal rancore e dalla sete di vendetta.
E' un'illusione credere di risolvere la questione dei profughi palestinesi in Libano senza la realizzazione di un vero programma di scolarizzazione e di formazione professionale di cui si facciano carico le Nazioni Unite e senza la effettiva attuazione della Risoluzione 194, approvata nel dicembre 1948 che prevede il libero ritorno dei profughi nel territorio d'origine.
Occorre riconoscere che senza lo svolgimento di processi che individuino e puniscano i responsabili di stragi come quelle di Sabra e Chatila e che, allo stesso tempo, onorino le vittime e garantiscano giustizia ai sopravvissuti, pensare di portare la pace in Medioriente è pura utopia.
Fabrizio Giangrande
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