Anche Ernesto Vallerani, ex presidente di Alenia Spazio e tra i principali protagonisti dell’avventura spaziale italiana (in particolare con la costruzione dei moduli della ISS), ricorda perfettamente quel 20 luglio. “Un’emozione profonda che ha lasciato un segno indelebile e ha condizionato tutta la mia vita professionale. Il successo del Programma Apollo confermò il ruolo incontrastato della NASA come leader dei programmi spaziali, tanto che per lungo tempo i Piani Spaziali delle Agenzie del resto del mondo sono stati influenzati da quelli dell’Agenzia Spaziale americana”.
Per l'Italia, quel trionfo della NASA aveva un significato particolare. “In campo spaziale eravamo più che filoamericani” ricorda Michelangelo de Maria, docente all'Università “La Sapienza” di Roma e tra i principali storici delle attività spaziali italiane “tanto che in quegli anni più che un programma nazionale si può dire che avessimo un programma bilaterale con gli USA. Il successo americano con il programma Apollo, in un certo senso, gettava una luce positiva anche sui programmi spaziali italiani, e ne ampliava le prospettive politiche”.
Nel 1964, con il satellite San Marco 1, l'Italia era stata il terzo paese (dopo appunto l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti) a mettere in orbita un proprio satellite artificiale. Impresa bissata tre anni dopo con il San Marco II. Entrambi i lanci nascevano da una stretta collaborazione con gli Stati Uniti (erano americani i lanciatori Scout, e nel primo caso anche la base di lancio, quella di Wallops Islands in Virginia), dovuta soprattutto alla personalità di Luigi Broglio, che coltivava rapporti molto stretti con l'industria aerospaziale statunitense e aveva mandato molti dei suoi a imparare il mestiere in America. “Tanto da non essere troppo ben visto da chi lavorava per dare all'Europa un accesso autonomo allo spazio” ricorda De Maria.
Proprio durante gli anni Sessanta infatti, mentre gli americani con le varie missioni Apollo completano la marcia di avvicinamento alla Luna, nascevano ELDO (European Launcher Development Organization, per lo sviluppo di lanciatori) ed ESRO (European Space Research Organization, per le attività scientifiche), entrambe fondate 1964. E l'Italia era tra i membri fondatori, trovandosi ad essere “il quarto paese per volume di investimento dopo Francia, Germania e Gran Bretagna, in un'Europa che rispetto alle due grandi potenze rimaneva però molto piccola” ricorda Guerriero.
Insomma, già allora le attività spaziali italiane si sviluppavano su quel doppio binario che le avrebbe caratterizzate negli anni a venire: da un lato il ruolo di pilastro della collaborazione europea, dall'altro il rapporto diretto e privilegiato con l'America.
Se questo era lo scenario alla data del 20 luglio 1969, a molti addetti ai lavori quello sbarco faceva immaginare un futuro molto diverso da quello che poi si sarebbe verificato. “Con i trionfi delle missioni Apollo sembrava dischiudersi di fronte a noi l’era dell’esplorazione dello spazio” continua Vallerani. “Quel primo passo sulla superficie della Luna alimentava un sogno, che altre imprese sarebbero seguite, altri Landers sarebbero discesi con a bordo altri uomini e perché no, un giorno anche un italiano, magari portato da un veicolo “Made in Italy”, avrebbe lasciato la propria orma sul suolo lunare. In più conoscevo gli studi americani per le successive missioni su Marte, che allora sembravano realizzabili in breve tempo”.
Invece, dopo tre anni, nel 1972, il programma Apollo si chiudeva e con esso i viaggi sulla Luna, per non parlare di Marte. “Col senno di poi, fa effetto ricordare come l’interesse per l’impresa lunare scemò rapidamente nel pubblico con le missioni successive” commenta Guerriero. “Ci si ricorda a malapena degli altri astronauti che continuarono ad andare sulla Luna sino al 1972, se si eccettua la tragedia sfiorata dell’Apollo 13”.
Non tutto il male venne per nuocere, perché secondo Vallerani fu in buona parte quella rinuncia a continuare l'esplorazione umana del Sistema Solare che consentì ad altri soggetti, in primis l'Europa, di giocare alla pari con USA e URSS in campo spaziale. “Dopo la conquista della Luna gli interessi sono stati orientati alle applicazioni dello spazio dette “utili”. Per l’Europa, che a quel tempo si trovava in condizioni di grande arretratezza tecnologica, questa battuta di arresto è risultata provvidenziale perché ha permesso di sviluppare capacità autonome nel settore delle telecomunicazioni, della meteorologia, della osservazione della terra e per il raggiungimento dell’orbita geostazionaria”. A livello italiano, va ricordato proprio in questi anni l'impegno nel programma SIRIO, il satellite per telecomunicazioni lanciato nel 1977.
Oggi però di Luna si ritorna a parlare, e quel po' di amaro in bocca rimasto a chi, come Vallerani, aveva sognato una bandiera italiana sulla Luna potrebbe trovare giustizia nei prossimi anni. Gli americani hanno annunciato di voler tornare sulla Luna entro il 2020, e se proseguiranno l'Europa e l'Italia non potranno che fare parte dell'impresa. Ma perché tornare sulla Luna oggi?
“Potremmo dire semplicemente perché la Luna è lì” commenta Enrico Saggese, presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana, che nel 1969 (che nel 1969 studiava ingegneria all'Università e ancora non immaginava un futuro in campo spaziale, ma lo stesso trascorse la notte insonne per assistere all'allunaggio, e ricorda ancora il brivido quando Armstrong fece scendere il primo piede dalla scaletta: “non si sapeva che consistenza avesse il suolo lunare, e c'era chi temeva che gli astronauti potessero sprofondare”). Riconquistare la Luna, sostiene Saggese, per saggiare i limiti delle possibilità umane. “La Luna è forse l'estrema frontiera dell'uomo odierno, con le tecnologie che abbiamo in questo momento è difficile pensare di andare oltre, anche se forse sarà possibile con sviluppi futuri. Ma oggi, se l'uomo vuole estendere i propri confini, deve pensare in concreto alla Luna. Certo sappiamo che lassù non ci sono tesori ad aspettarci. Ma dobbiamo andare, se non altro per dimostrare di essere ancora una specie vitale, capace di espandere i propri confini”.
L'Italia è dunque pronta a fare la sua parte in una collaborazione internazionale che riporti astronauti sulla Luna. Prima, però, pensa concretamente a una missione robotica, per cui l'ASI ha iniziato a vagliare idee durante un recente workshop svoltosi a Roma. “Una missione robotica verso la Luna a leadership italiana consentirebbe di sperimentare importanti tecnologie, e avrebbe l'effetto di entusiasmare un'intera generazione di tecnici, scienziati e nuovi laureati, di essere per loro uno stimolo come quaranta anni fa lo fu il programma Apollo”. Naturalmente, i robot dovrebbero precedere gli umani e arrivare sul suolo lunare prima del 2020. Trasformando così in realtà il sogno di molti che hanno fatto l’epopea spaziale italiana, di potervi finalmente piantare il nostro vessillo tricolore.
Nicola Nosengo, Daniela Cipolloni