Certo, Ehmud rammentava le difficoltà dei primi giorni per Anja nel vivere sottoterra. Il panico, le lacrime, la disperazione che le assediavano l’animo senza tregua, nel constatare di avere perso tutto, la casa, i genitori, la libertà, la possibilità di rivedere la luce del sole. Che cosa l’aveva salvata dallo sconsolante abisso dell’alienazione, che cosa aveva permesso ad Anja di riorganizzare il proprio mondo per tornare a sorridere e ad appassionarsi alle lezioni di Ehmud? Il vecchio maestro se lo domandava sempre, e una risposta assoluta e definitiva sembrava sfuggirgli. L’incommensurabile capacità di adattamento degli esseri umani in giovane età? Le parole rassicuranti della voce bassa e profonda di Ehmud? O forse, lo straordinario potere del rito, della consuetudine? Tutti quei piccoli gesti che Ehmud e Anja avevano cominciato a fare, giorno dopo giorno, mese dopo mese, come piccole abitudini che via via si trasformavano in tradizioni. C’era qualcosa di straordinariamente rassicurante nella consapevolezza di una tradizione. Come sentire il terreno saldo sotto i propri piedi e sapere con precisione dove, quando e perché si sta camminando. Sì, questo era stato di certo un elemento determinante perché Anja raggiungesse il suo nuovo equilibrio. Ma Ehmud sapeva che, mentre le settimane trascorrevano e la polvere aumentava, inasprendo i nodi di tosse che eruttavano dai suoi polmoni, il bisogno di uscire di Anja si faceva sempre più arduo da placare. E non solo quello. Ehmud sapeva che lo spirito vivace e ricettivo della ragazzina non avrebbe potuto evitare a lungo di porsi domande, su di lei, su di lui, sulla loro situazione. Aveva già rivolto tante domande a Ehmud, ma finora le sue risposte gli erano sempre bastate. Presto non sarebbe stato più così. Presto avrebbe desiderato rimuovere la pace presente per inseguire orizzonti futuri. Più la vecchiaia incideva pesantemente sul suo volto e la salute si faceva precaria, più Ehmud aveva la sensazione che sarebbe morto prima che Anja potesse affidargli l’onere di risolvere simili desideri e interrogativi. Per allora, si riprometteva costantemente Ehmud, l’educazione della piccola avrebbe dovuto essere conclusa. Solo con l’istruzione le sarebbe stato possibile far fronte a un’esistenza senza il punto di riferimento di un altro essere umano. Senza il suo maestro.
La voce squillante e sempre vagamente frettolosa di Anja, solo parzialmente contenuta da una corretta disciplina, si alzò come un’onda pronta ad infrangersi verso la tesa sagoma dell’insegnante.
“Maestro, la lezione di oggi…”
“Sì, Anja, lo so. Abbiamo già studiato questo passo. Ma vorrei ripassarlo con te, del resto è uno dei più importanti.”
“Sì, maestro. Le posso fare una domanda?”
Ehmud si sorprese leggermente nell’accorgersi che il suo cenno di assenso non veniva ricambiato dal solito ondeggiare eccitato delle spalle di Anja, ma da una sorta di dubbioso rabbuio nello sguardo della piccola.
“Io ho imparato tutti e dieci i comandamenti, come mi aveva detto, e li ho anche capiti. Solo che… Ecco… c’è quello che dice “Non desiderare la donna d’altri”.”
Ehmud lasciò andare un breve colpo di tosse e si appoggiò sulla cattedra, anch’essa rosa e consumata come il banco di Anja. La debole lampada elettrica che pendeva dal soffitto disegnava lunghe ombre di fianco ai loro corpi.
“Sì. E’ il nono comandamento. Qual è il problema?”
“Ecco, lei mi aveva detto che non vale solo per gli uomini. Anche le donne non devono desiderare l’uomo di altre donne. Perché l’adulterio è peccato. Ma non c’è scritto “Donna, non desiderare l’uomo d’altri.”. Perché?”
“Perché in origine le tavole della Legge… dell’Alleanza di Dio con il suo popolo... erano destinate ai capi, ai patriarchi. Questi le hanno utilizzate come punto di partenza per fondare la società ebraica, una volta giunti nella Terra Promessa.”
“E le donne, non facevano anche loro parte di questa società?”
“Certo…”, Ehmud allargò leggermente la bocca graffiata dalle rughe, “Ma all’epoca in cui Mosé ricevette le tavole della Legge, le donne non si occupavano di organizzare la società. Era un compito riservato agli uomini.”
“Non può, ecco…”, Anja si interruppe per un attimo, quasi temesse di stare per dire una sciocchezza, “Non può essere stato un modo di Dio per vendicarsi?”
“Vendicarsi?”
“Sì, insomma… E’ stata Eva che ha offerto la mela a Adamo, no? Lei ha dato retta al serpente… Per colpa sua gli uomini sono stati scacciati dal Paradiso. E allora, insomma, Dio per punizione ha escluso le donne dalla legge, non gliele ha volute affidare. Occhio per occhio, dente per dente. Non è così che ragiona Dio?”
“Così ragionano gli uomini.”
“Ma la legge di Mosé non dice “Occhio per occhio, dente per dente?”
“Sì, ma…”
“E questi comandamenti, allora… sono la legge di Dio che viene data agli uomini, o la legge che gli uomini hanno fatto per sentirsi degni di Dio?”
Ehmud rimase interdetto, turbato. Che fosse stata quella la prima delle domande che tanto lo preoccupavano? Se fosse stato così, Anja era senz’altro più precoce di quanto Ehmud avesse potuto immaginare. Lei scrutò il disagio dell’anziano professore intimorita, ma anche sinceramente in apprensione.
“Maestro… Ho detto forse qualcosa di sbagliato?”
Ehmud tirò un respiro profondo e chinò il capo verso Anja.
“No, bambina…”, disse sorridendo “Ma non è così semplice. Capirai meglio quando sarai un po’ più grande. E dopo altre lezioni.”
“Va bene, maestro.” Anja ricambiò il sorriso.
La lezione si svolse normalmente, con le parole di Anja e di Ehmud che rimbombavano nella solitudine circostante, fino al gracchio meccanico di una rudimentale campanella collegata agli interruttori della luce. Il tempo del lavoro e dell’apprendimento cedeva dunque il passo al momento assai più ricreativo del pranzo.
Come al solito, Anja aspettò nella camera adiacente alla sala dello studio che Ehmud prendesse le razioni di cibo dal magazzino delle provviste, di cui solo il vecchio possedeva le chiavi.
Vuotarono il contenuto dei sacchetti di provviste sui propri piatti, sempre gli stessi, ma lavati tanto meticolosamente da sembrare nuovi di zecca. Ehmud masticava con difficoltà e sovente mandava un sospiro dopo aver ingoiato. Anja sfogava sul proprio cibo le lunghe ore di fatica mentale e non rinunciava a parlare, neanche con la bocca stracolma di pietanze.
“Uh, nonno?” Ehmud le rivolse un breve sguardo. Lei lo fissava lieta. Sapeva che al di fuori delle lezioni le era consentito di non rivolgersi a lui come “il maestro”.
“Che c’è, Anja?” Ehmud notò che la nipotina mostrava di nuovo quella bizzarra incertezza nello sguardo che aveva manifestato all’inizio della lezione.
“Perché ci troviamo qui?”
“Perché? Te l’ho già detto tante volte, piccina. Come mai me lo chiedi ancora?”
“E’ solo che… non mi sembra vero. Insomma, da noi c’erano tanti problemi e tanti pericoli, mi ricordo bene. Ma poi, all’improvviso… Una notte vado a letto, saluto il papà, do un bacio alla mamma, e poi, all’improvviso, di punto in bianco, mi sveglio qui. Con te. E tu… tu mi dici che è scoppiata una guerra… che il nostro Paese non c’è più…”
“Le cose in genere avvengono per piccoli passi, bambina. Ma le grandi tragedie ci colgono sempre impreparati. Tanti anni fa alla nostra gente successe una cosa del genere. Fu in un altro paese. Cominciarono per gradi, certo, prima costrinsero gli Ebrei ad andare in giro con una stella cucita sopra, così da poterli riconoscere. Poi continuarono a maltrattarli, scacciarli… Finché, un giorno, tanti anziani come me e tanti bambini come te si risvegliarono su dei soffocanti treni diretti verso i campi di sterminio. Noi due, in confronto, siamo stati fortunati.”
“Questo posto in cui ci siamo nascosti è così grande, nonno… Perché non hai fatto venire dentro qualcun altro, come la mamma e il papà?”
“Te l’ho detto. Non ne ho avuto il tempo. I nostri nemici li avevano già portati via, con le loro armi.”
“Secondo me sono ancora vivi.”
Il corpo di Ehmud sembrò attraversato da un improvviso tremito. Sbatté gli occhi oscillando fra la rabbia e il dolore.
“Non sono vivi, bambina. Non continuare a pensarlo. Ti farebbe solo male.”
Anja lasciò andare il suo piatto e girò le spalle al nonno.
“Tu lo dici perché non li ami, non li hai mai amati! Perché loro non erano come te, non pensavano le cose che pensi tu. Tu volevi bene solo a me, per questo mi hai portato qui con te!”
“Basta, Anja!” Ehmud tirò il suo vassoio contro il muro, in un accesso d’ira che si rivelò tanto più impressionante per Anja in quanto proveniente da un uomo ormai allo stremo delle forze e ben più avvezzo a un temperamento mite.
Non dissero una parola per tutto il resto del pranzo. La lezione del pomeriggio si svolse regolarmente, poiché entrambi erano soliti considerare il rapporto tra Anja e il maestro Ehmud autonomo e indipendente da quello tra Anja e il nonno Ehmud. Durante la lezione, quindi, l’incidente sembrò appartenere alla vita di due persone diverse.
Nel corso della cena fu Anja a rompere il silenzio, sospinta come da un impeto irrefrenabile, che le consentiva di vincere non senza riserve il timore di un nuovo attimo di collera del vecchio.
“Nonno, scusami…”, l’anziano annuì.
“… Quando potrò aprire il tuo cofanetto?”
Ehmud fece precedere la sua risposta da un lungo, stirato sbuffo.
“Quando non ci sarò più, Anja. Lo sai.”
“Ma… non pensi che potrei dargli un’occhiata prima? Solo per vedere cosa c’è dentro…”
“Non ne hai bisogno. Sai già cosa c’è, te l’ho detto io. C’è scritto cosa dovrai fare quando io non ci sarò più.”
“Come aprire la porta quando finirà il cibo, o l’acqua. C’è scritto questo, non è così, nonno?”
Ehmud non rispose. Passarono alcuni interminabili minuti di silenzio, mentre ognuno dei due consumava la sua porzione di viveri con maggior lentezza del solito.
“E se ci sarà ancora la guerra, quando saranno finiti il cibo e l’acqua?”
“Dovrai correre il rischio, bambina. Il nostro popolo ne ha corsi tanti, ed è sempre sopravvissuto.”
La notte arrivò, come l’ennesima tradizione. Anja non amava la notte. Lei e Ehmud dormivano nella stessa stanza, su due brande scricchiolanti poco distanti l’una dall’altra. I sogni di Ehmud erano sempre agitati. Anja a volte si svegliava e non riusciva più a prendere sonno, perché i suoi occhi si posavano sul nonno che si agitava e borbottava in preda a insondabili incubi. Aveva sempre con sé un serpente imbalsamato, che custodiva nella sua sacca personale e tirava fuori prima di addormentarsi. Se lo teneva vicino quasi fosse stato un oggetto sacro, o un portafortuna. Ma come, si chiedeva Anja, proprio lui che le aveva insegnato a considerare l’idolatria un male terribile? Che con intensità drammatica degna di un attore aveva mimato davanti ai suoi occhi abbagliati la scena in cui Mosé, infuriato, bruciava il vitello d’oro e infrangeva le tavole dei comandamenti? I primi tempi Anja aveva creduto che Ehmud tenesse a letto con sé quel disgustoso serpente morto per farle paura e non farla alzare di notte, affinché non le venisse in mente di rubare la chiave del cofanetto. E tutti quei rumori angoscianti, quell’irrefrenabile inquietudine che lo tormentava, avevano davvero sortito l’effetto di terrorizzare Anja e distoglierla da qualsiasi tentativo di ribellione. Ma ora Anja cominciava a sospettare che non fosse per lei che il nonno si angustiava tanto, ma per un suo problema che doveva turbarlo molto. Lo aveva capito dal giorno in cui si era accorta che Ehmud, più che parlare da solo, sembrava dialogare. Dialogare con il serpente. Malgrado tenesse gli occhi chiusi e stesse chiaramente sognando, Ehmud rivolgeva le sue parole a quell’essere inanimato, come se si trattasse di un suo terribile nemico o di qualcosa che lo minacciava. Gli aveva dato tanti nomi diversi, nel corso delle notti, a volte addirittura l’aveva chiamato con i nomi della mamma o del papà di Anja. Una volta, solo una, e fu la più paurosa per il baccano agghiacciante che destò il sonnambulo, Anja lo sentì distintamente chiamare il serpente “Ehmud.”
Il giorno dopo, durante la lezione, Ehmud aveva più mal di schiena del solito. Anja stavolta mostrò quello strano sguardo pieno di idee e impressioni contrastanti fin dal primo minuto. Il passo da leggere riguardava l’esodo verso la Terra Promessa. Dopo una dettagliata e appassionata spiegazione del maestro, la piccola alunna alzò la mano e Ehmud le diede il permesso di parlare.
“Maestro, mio padre…” Ehmud cambiò d’espressione e si fece più serio e grave, lei proseguì, “Mio padre una volta mi ha detto che noi siamo stati scacciati dalla nostra Terra Promessa, tanti anni fa, ma che recentemente alcuni di noi sono tornati, e ci hanno fondato il paese dove vivia… Dove vivevamo.”
“Sì, è esatto.”
“Ma, per fare questo, ha detto mio padre, abbiamo costretto altri, che si erano stabiliti lì in nostra assenza, ad andarsene, a fare un altro Esodo. Solo che loro non hanno una Terra Promessa. Maestro, perché Dio vuole che noi scacciamo quegli altri popoli? Loro che colpa ne hanno, se tanti secoli fa degli altri ci hanno scacciato da quelle terre?”
Ehmud cercò di non dare a vedere una certa irritazione. Anja continuava a fissarlo con sincera confusione.
“La nostra religione dice che noi siamo il popolo eletto. Questa terra ci spettava secondo la volontà di Dio.”
“Maestro, cosa significa, che noi siamo il popolo eletto?”
“Noi siamo speciali, Anja. Siamo il popolo con cui Dio ha stabilito la sua alleanza. Tutti gli altri dei, quello dei Cristiani, quello di Maometto… Sono venuti tutti dopo il nostro. Tanti altri popoli hanno cercato di imitare la nostra fede, ma invano.”
“E’ per questo che ci odiano tutti, maestro? Perché siamo speciali?”
“Ci odiano perché siamo diversi, Anja. E noi siamo orgogliosi della nostra diversità. Quando non avevamo un nostro Stato, e vivevamo nelle terre degli altri popoli… loro non sopportavano che noi mantenessimo i nostri usi, le nostre credenze. Hanno cercato mille scuse e giustificazioni per isolarci, per prendersela con noi, per tenerci in gabbia. Ecco cos’hanno voluto fare per secoli gli altri, bambina mia. Tenerci in gabbia.”
“Nonno…” Ehmud spalancò gli occhi stupefatto. Anja rimase per un attimo sconcertata, come se avesse rotto un oggetto preziosissimo.
“Io… volevo dire maestro…” Lo sguardo spaventato di Anja si acquietò incrociandosi con quello di nuovo sereno di Ehmud.
“Dimmi pure, Anja.”
“Ecco… mio padre mi ha detto un’altra cosa, a proposito di chi vuole tenerci in gabbia. Lui ha detto…” Anja sembrò attendere un istante, come per verificare l’approvazione del docente.
“…Ha detto… che a volte le gabbie peggiori sono quelle che ci creiamo noi stessi.”
Ehmud non rispose. Cominciò a girare attorno al banco di Anja, perplesso e meditabondo. Ogni passo era lento e cadenzato da un colpo di tosse. Dopo aver fatto il giro, il vecchio insegnante si arrestò di fronte alla piccola, che lo osservava vagamente disorientata. Entrambi erano alle prese con azioni e reazioni del tutto inedite nel proprio abituale interlocutore.
“E tu cosa pensi che significhi quella frase, Anja?”
“Io… non lo so. Però… Mi chiedo perché… Perché abbiamo bisogno di una Terra Promessa? Davvero non riusciamo a vivere in pace, conservando il nostro modo di essere, assieme alle altre popolazioni? Per quale motivo dobbiamo chiuderci così, in noi stessi? Non è quello che hanno sempre tentato di fare gli altri, quelli che ci odiavano? Isolarci, farci sentire… uniti, ma allo stesso tempo più soli che mai?”
La conversazione fu rotta da un fischio, leggero e prolungato, che sarebbe risultato divertente se non fosse stato per le insolite circostanze. Poi ci fu un tonfo sordo. E un boato assordante, che mise in allarme Ehmud e Anja. La bambina rimase incollata alla sedia, pietrificata dallo spavento. Ehmud si catapultò allarmato verso la porta che conduceva alla stanza accanto. Una nuvola di fumo proveniva dall’entrata del rifugio sotterraneo. Qualcuno l’aveva fatta saltare. Ehmud si avvicinò alla bambina, muovendosi con una velocità tale da mettere a dura prova il suo cuore già troppo usurato. Anja piangeva.
“Nonno… Che cosa succede?”
E per la seconda volta, il maestro si ritrovò senza una risposta. Sapeva perfettamente cosa stava avvenendo, ma non trovava le parole adatte per spiegarlo alla piccola. Non si aspettava che sarebbe potuto accadere, non così presto, almeno. Ma ormai era inutile negare l’evidenza. Strinse Anja a sé, mentre alle sue spalle un gruppo di agenti di polizia faceva capolino nella stanza trascinando le pesanti scarpe. Uno degli agenti si avvicinò cautamente a Ehmud.
“Si sposti, professor Spiegel, metta le mani bene in vista!”
Ehmud obbedì. Quando si fu mostrato inoffensivo agli occhi degli agenti, sopraggiunse un uomo anziano, accompagnato da due guardie. L’uomo somigliava incredibilmente a Ehmud. Gli si avvicinò con una cordialità tale da risultare palesemente simulata. Dal suo sguardo era evidente il timore di aver a che fare con un pazzo. L’aria diffidente dei poliziotti ne rappresentava la conferma. Probabilmente Ehmud doveva aver conosciuto quell’anziano signore che gli somigliava tanto, ma sembrava averne smarrito i ricordi nel labirinto della propria mente. L’uomo sorrise e sollevò le sopracciglia mostrandosi quasi commosso.
“Ehmud! Ah, Ehmud, grazie al cielo stai bene, stai bene! Ma come ti è venuto in mente di fare questa pazzia? Guardati intorno, un rifugio antibombe abbandonato! Non è certo il posto migliore per costruirsi una casa.”
Ehmud indietreggiò leggermente.
“L’ho… l’ho fatto per la guerra. C’è la guerra, dovevo ripararmi dai bombardamenti!”
“Ma quale guerra, Ehmud! Adesso finalmente ci sarà la pace. Israele ha ceduto alcuni dei territori occupati al nuovo stato palestinese. Davvero, Ehmud, credevo avessi lasciato queste vecchie case già da parecchio!”
“Queste vecchie case? Qui c’è la mia casa, e io non voglio abbandonarla! Questa è la nostra terra, non possiamo cederla!”
“Ehmud, lo so che è difficile, lo è stato per tutti, ma questo sarà nel nostro interesse. Basta conflitti, basta violenza, è ora di cominciare a vivere in pace!”
“Nonno…”, la voce di Anja fece avere un sussulto a Ehmud, “Nonno, è vero quello che dice? Non c’è mai stata nessuna guerra? Sono tutti vivi, Israele c’è ancora?”
Ehmud si rivolse alla bambina.
“Anja… Anja, devi scappare da qui. Prendi le chiavi nella mia sacca, quelle rosse, e apri il cofanetto!”
“Ma loro? Loro non mi lasceranno andare…”
I poliziotti si guardarono fra di loro meravigliati. L’uomo anziano si rivolse di nuovo a Ehmud. Guardò in direzione di Anja, ma i suoi occhi parvero non riuscire a scorgere nulla.
“Ehmud… con chi stai parlando? Non c’è nessuno accanto a te. Chi è Anja?”
Ehmud, totalmente indifferente al richiamo dell’altro, sorrise alla bambina.
“Loro non ti possono vedere. Vai, fai come ti ho detto.”
“Ho paura, nonno, che cosa ti faranno?”
“Andrà tutto bene. Vai, presto, vai!”
La bambina corse affannata e invisibile verso la stanza da letto. Ehmud decise di temporeggiare. Riuscì con uno sforzo a mostrarsi più tranquillo, guardò i poliziotti attorno a lui fremere di impazienza, poi si voltò verso lo sconosciuto.
“Ehmud”, fece quello, il tono mellifluo e vibrante, “Non preoccuparti per questi uomini, lo sanno che non sei una minaccia, non ti faranno niente. Pensa, se non fosse stato per me non avrebbero mai scoperto che ti trovavi qui. Dopo tutti questi anni che non ci eravamo parlati, volevo contattarti al tuo nuovo indirizzo, e ho scoperto che eri sparito.”
“Lo sai…”, Ehmud fece accompagnare la frase da un colpo di tosse sommesso, simile a un sogghigno, “Io neanche mi ricordo di te. Ci conosciamo?”
L’uomo anziano e sconosciuto sembrò provare una stretta al cuore.
“Ma come, Ehmud, non ti ricordi di me? Sono io, Isaac… Tuo fratello…”
“Mio fratello… E mio figlio? Lui non si è accorto che ero scomparso?”
“Ehmud, cosa dici? Tu non hai mai avuto figli…”
Un poliziotto si lasciò sfuggire un commento poco discreto sullo stato mentale di Ehmud. Isaac lo zittì con un’occhiata storta e un cenno di dissenso.
“Ascolta, Ehmud, sono venuto fin qui per aiutarti. Lo so che sei sconvolto, ma questo per me non conta. Usciamo da qui. Insieme.”
Quando Anja tornò dall’altra stanza, Ehmud stava seguendo il fratello tenendosi al suo braccio. Insieme uscivano dalla stanza con movimenti placidi e misurati, un’espressione apatica era l’unico commento del vecchio professore. I poliziotti seguivano con indiscreta attenzione anche la più impercettibile emissione di fiato dei due uomini. Non appena vide Anja, Ehmud fece un brusco scatto indietro, sussultando verso ciò che per tutti gli altri era il nulla.
“Anja…”
La bambina sorrideva. Sembrava aver conquistato una nuova sicurezza, come se in quei pochi minuti di assenza avesse raggiunto una quantità di esperienze maggiore di quelle di una vita intera.
“Non preoccuparti. Ho aperto il cofanetto. Ora so.”
“Ho sbagliato a tenerti rinchiusa con me. Non lo meriti. Esci di qui, Anja, tu sei il futuro! Porta il tuo entusiasmo e le tue domande a tutti, liberali dalle gabbie!”
Ehmud non si era accorto di stare gridando quelle parole mentre tirava nella direzione opposta il debole Isaac, quasi fino a farlo cadere. Tre agenti gli si avventarono contro come se avessero dovuto bloccare un orso selvaggio. Dopo averlo immobilizzato presero a trascinarlo fuori dalla stanza. Con Isaac rintanato rasente al muro che li incitava a stare calmi, sbiascicando invano che era tutto sotto controllo. Ehmud continuava a rivolgersi ad Anja con veemenza ancora maggiore, come se quello fosse stato il monito finale dell’ultima e più importante lezione. Ma ormai l’allieva aveva superato il maestro. Mentre la distanza fra i due aumentava, lei gli fece cenno di non preoccuparsi.
“Il libro, Anja! Porta con te il libro! Ti servirà per ricordare chi siamo, qual è la nostra storia! Per ricordarti anche di me!”
Quando Anja chinò il capo affermativamente, i poliziotti avevano già portato via Ehmud, mentre uno stordito Isaac veniva condotto nella medesima direzione del fratello.
Uno degli agenti rimasti si rivolse a una giovane recluta vicino a lui.
“Prendi quel libro di cui delirava il vecchio, e sbrigati. Dobbiamo sgombrare questo posto in fretta!”
“Libro? Quale libro, signore?”
“Quella grande Bibbia sul tavolino. Avanti, non perdere tempo!”
“Ma, signore… Non c’è nessun libro sul tavolino!”
L’agente strabuzzò gli occhi verso il banchetto di Anja. Il libro non c’era più. Non era caduto a terra, e nessun altro agente si era avvicinato al tavolo. Sembrava che si fosse volatilizzato. I due poliziotti si guardarono a vicenda confusi. Non potevano sapere che Anja era stata più rapida di loro. Adesso lei sapeva che l’unico a poterla vedere era Ehmud. Perché lui l’aveva creata. Quel vecchio professore voleva solo qualcuno che gli tenesse compagnia, qualcuno che avesse una storia, che gli fosse legato. E così aveva creato una nipote che non era mai esistita. E, involontariamente, le aveva infuso tutto ciò che di sé aveva da troppo tempo ignorato. I dubbi, l’ingenuità. Ma anche una grande gioia di condividere e di imparare. Anja, ora che aveva consultato la pergamena celata nel cofanetto, quella su cui Ehmud aveva scritto la verità, si sentiva come se avesse sempre saputo la sua reale condizione. Ed era pronta a uscire fuori, a librarsi nell’aria e nelle coscienze, intangibile e inafferrabile. Mentre parlava con Isaac, Ehmud aveva capito che la bambina era diversa da lui. Non aveva le sue stesse ossessioni, i suoi stessi serpenti nel cuore. Doveva lasciarla andare. Anche se non aveva avuto il tempo di infonderle tutta la sua conoscenza. Ma il libro l’avrebbe aiutata. Anja era giovane, ma dentro di sé aveva la più grande forza della natura umana. La forza di un’idea. E le idee resistono a qualsiasi gabbia.
Emanuele Bucci