Fantascienza (9)
“Date all’uomo un perché e lui potrà superare qualsiasi come”. Ma basta, per favore! Basta con i luoghi comuni, con le frasi fatte. Sonia non ce la faceva davvero più. Eppure era quello il suo lavoro. Non ciò che era diventato, come le sarebbe piaciuto credere, ma ciò che era sempre stato. Tirar fuori dalla propria bocca, ogni giorno più vecchia, ogni giorno più stanca, un grande mare di banalità. Del resto, doveva interloquire con i suoi ascoltatori, tutti quelli che telefonavano erano gente comune, normale, e alla gente normale piace quando qualcuno parla per banalità. Gente normale. Ecco un altro luogo comune. Chiamavano in tanti, ognuno con problemi apparentemente diversi, eppure sempre con qualcosa in comune: non erano soddisfatti della loro vita. Così componevano il numero del programma di Sonia e si sfogavano. E lei rispondeva. La radio di Sonia, la voce del pomeriggio, il punto di riferimento per chissà quanti casi umani dell’intera regione.
Fu uno scatto rigido, improvviso, molto sgradevole, quello con cui si fermò l’autotrasporto clandestino alle otto e mezza di una grigia e stagnante sera d’estate. Era un veicolo enorme, decadente, traballante, vecchio come l’emarginazione e il pregiudizio. La brusca frenata faceva da degna coronazione a un viaggio interminabile e atroce per chi era costretto a percorrerlo. Gli autotrasporti clandestini seguivano sempre strade tortuose, pericolanti e desolate abbastanza da non correre il rischio di essere intercettati dalle squadre di polizia o da qualsivoglia genere di occhio indiscreto.
Non era la sua figura ad affascinarmi. Non erano il taglio degli occhi o il colore dei capelli o la forma della bocca. Non era il suo corpo, né il suo profumo. Era il suo dolore. C’era qualcosa di inesorabilmente magnetico nei suoi singhiozzi, nelle vibrazioni della voce, ora sommesse e ora incredibilmente acute, nel debordante strazio che progressivamente frantumava la lieve patina di compostezza con la quale all’inizio si era presentata. Non provavo certo piacere nel vederla così manifestamente soffrire. Era più una sorta di curiosità, che mano a mano si tramutava in bisogno, in una vera e propria dipendenza. Non sarei riuscito a staccarle gli occhi di dosso. E non avrei saputo stabilire se era una curiosità dovuta alla voglia di capire quel dolore e le sue ragioni, oppure un mero desiderio di contemplazione, di osservazione apparentemente sterile. In assenza di spiegazioni razionali, preferivo abbandonarmi a ciò che i miei istinti suggerivano fosse positivo.
Io mi preoccupo della mia epoca. Fino a qualche secolo fa, una simile affermazione avrebbe potuto apparire scontata. Ma oggi, ora, in questo momento, non più. E’ l’errore fondamentale dell’essere umano, il dare troppe cose come sicure, assolute e naturali. Poi arriva il diverso, l’elemento destabilizzante che ci mette in crisi. Con un gesto distratto ma ugualmente devastante, in un attimo frantuma il fragile e imperfetto castello di sabbia delle nostre convinzioni. E mentre noi arranchiamo e boccheggiamo storditi, troppo confusi per dare ascolto alla ragione, in assenza di altri punti di riferimento ci lasciamo sedurre dalla paura. E senza che ce ne rendiamo conto, il diverso è già diventato il nemico. Il nostro nemico. Perché mi tormento con pensieri del genere? Non dovrei permettere a dubbi irrazionali di influenzare le mie decisioni. L’incertezza fine a se stessa è la peggior malattia di un buon giudice. Ormai, che mi piaccia o no, sono vecchia, e ho portato avanti la mia esistenza seguendo punti di riferimento che sarebbe pericoloso e assurdo rimettere in discussione proprio adesso.
ATENE, IV SECOLO A.C.
“Guardala. Guarda quanto è bella.”
“Sì, maestro, anche se… c’è qualcosa che mi inquieta, nella luna piena. Come se qualcuno ci osservasse. Una donna.”
“Una donna, dici?”
“Una grassa donna dai seni enormi e cadenti. Con le braccia tese verso di noi, un sorriso affettuoso e invitante, e gli occhi… occhi così chiari da risplendere nel cielo oscuro, occhi in cui i mortali rischiano costantemente di perdersi fino a dimenticare tutto il resto.”
“Potrebbe essere Selene, la donna a cui alludi. Quando la luna è piena, Selene si fa un po’ più vicina a noi. Una regina che è forse più autentica di tanti monarchi del nostro tempo, non trovi?”
“Non… non capisco.”
Era convinta che sarebbe arrivata per prima. Quando Cinzia entrò nella stanza che presto avrebbe ospitato la riunione del pomeriggio, vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettata di trovare. Posto nel centro esatto del tavolo, come una decorazione o un vaso di fiori. Un bambino. C’era qualcosa di insolito, bizzarro in lui. Dalla statura e dall’aspetto gli si sarebbero dati non più di cinque o sei anni. Un ragazzino robusto, colorito, all’apparenza in ottima salute. Eppure non correva, non saltellava, non si lamentava di trovarsi lì tutto solo. L’intrusione di Cinzia lo lasciò totalmente indifferente. Gli unici movimenti che compiva quasi meccanicamente erano quelli della mano e della testa, intenti rispettivamente a voltare e a leggere le pagine di un gran librone di fiabe pieno di vivaci e suggestive illustrazioni.
Cinzia si guardò intorno. Come era arrivato lì quel bambino? Doveva avercelo portato qualcuno che avesse le chiavi della stanza, un vecchio e squallido appartamento che una volta fungeva da ripostiglio. Un locale un tempo governato dalla polvere e abitato da oggetti inutili e dimenticati. Ora che da qualche anno era stato sgomberato e adibito a sala per le riunioni condominiali, aveva cambiato sia regime che sudditanza. Era sempre il posto più trascurato e angusto dell’intero palazzo, ma adesso senza alcun dubbio era anche il più odiato. Ora a regnare erano i conflitti e le meschinità, e a risiedervi saltuariamente le urla, le imprecazioni e gli insulti che costituivano il principale passatempo comune degli inquilini.
Anja si sistemò sulla fredda sedia in ferro battuto, proprio di fronte a Ehmud. Lui scrisse con uno degli ultimi gessetti rossi il passo da leggere sulla lavagna grigia. Guardò la bambina sollevare da terra l’immenso libro di testo e poggiarlo sopra il consunto tavolino di legno rosicchiato dai tarli che fungeva da banco. Tutto era vecchio in quella grande stanza. Tutto tranne Anja. Ormai lei e Ehmud si trovavano in quella prigione sotterranea da alcuni mesi. Le loro lezioni nella sala centrale, quella adibita allo studio, si svolgevano quotidianamente. Ehmud sentiva l’energia delle membra venirgli ogni giorno meno, e perfino la propria folta e arruffata barba bianca cominciava a sembrare un fardello da dover trascinare, piuttosto che un sigillo di autorità e saggezza. Invece Anja non invecchiava. Cresceva. Ogni lezione aumentava il suo sapere. Ma il focolare interiore di quella deliziosa creatura, la vitalità che emanava ad ogni respiro, l’entusiasmo che travasava anche dal gesto più insignificante erano in grado di far commuovere Ehmud, di infondergli un nuovo, inestinguibile vigore. Quando guardava gli occhi limpidi della bambina brillare di curiosità e aspettative al centro del viso dolce e minuto, Ehmud era convinto di poter capire come si sentisse Mosé mentre contemplava il roveto ardente.
Freddo. Glaciale, penetrante. Odore di umidità e legno marcito. Tenebre oscure, come eterni e insondabili disegni. Fuori, la pioggia. Non faceva altro che piovere, da un po’ di giorni a quella parte. C’è chi avrebbe trovato una simile evenienza tetra, o squallida, o sfortunata. Ma a Antonio Silvera, meglio noto come Empath, la pioggia era sempre piaciuta. Vedere la perfezione azzurra del cielo intaccata dall’addensarsi progressivo delle nubi, fino a quel lungo, straziante pianto di orgoglio sconfitto, lo faceva sentire bene. Come un meraviglioso errore commesso dalla volta celeste. Circondato da assi molli e travi pericolanti, Empath ora sedeva sul pavimento polveroso di quello che un tempo era stato il piano di sopra di una splendida, ricca casa di un’altrettanto prestigiosa famiglia, e che ora si riduceva a una baracca diroccata e fatiscente, in attesa disperata dell’eutanasia di una demolizione. Al centro, un enorme crollo di qualche anno prima permetteva una buona visuale del piano sottostante. Buona, per chi fosse pratico dell’appartamento e abituato a quell’oscurità.
Giorno: 22 novembre Ore: 3 a.m.
La prima regola di uno scrittore che voglia durare più di un tronfio romanzo e qualche scarna poesiola, è quella di non affezionarsi mai a ciò che scrive. Ecco, lo stesso forse dovrebbe valere per il proprio corpo. Più lo vizi e lo soffochi di attenzioni, più lo eleggi a improbabile ricettacolo di una fatua perfezione, più quello, inevitabilmente, ti tradirà con le sue beffe subdole, con i suoi acidi capricci.
Per “La Stanza”, al secolo Emil Moore, le alternative erano due, se sperava di sopravvivere alla croce di una fragile fisicità. Rinnegarla completamente, e questo sarebbe stato o un suicidio, o un patetico tentativo di auto inganno. Oppure trasformarla in uno strumento, come la maniglia di una porta, un noioso ma inevitabile tramite per “qualcos’altro”. Emil aveva scelto questa seconda opzione.