Il servizio di neuropsicologia serve a diagnosticare e riabilitare i deficit mentali conseguenti le lesioni cerebrali. Questi deficit possono riguardare la percezione, l’attenzione, la memoria, il linguaggio orale o scritto, la capacità di effettuare calcoli aritmetici, la capacità di svolgere azioni motorie complesse e di pianificare le attività quotidiane. Un’equipe di neuropsicologia è formata da psicologi specializzati in neuropsicologia che lavorano in strettissimo contatto con altri specialisti come logopedisti, neurologi, neuroradiologi, geriatri e fisiatri. La neuropsicologia si occupa delle relazioni tra mente e cervello, mediante l’indagine degli effetti delle lesioni cerebrali sui processi mentali (cognitivi ed emotivomotivazionali) e sul comportamento. Queste conoscenze vengono poi tradotte in strumenti diagnostici e tecniche riabilitative.
Il caso studiato dal Professor Konstantinos Priftis dimostra da un lato il completo recupero del paziente, ma anche il vantaggio in termini sociali ed economici per il sistema sanitario nazionale. Alcuni studi americani hanno suggerito che la presenza di un servizio di neuropsicologia riduce significativamente il numero di giorni di ricovero ospedaliero dei pazienti, comportando guadagni che, nei casi studiati, variavano da 500.000 a 750.000 dollari. «La riabilitazione neuropsicologica è di fondamentale importanza per il ritorno del paziente alle proprie attività quotidiane. Per esempio, in seguito alla lesione nella parte sinistra del cervello, un paziente può mantenere intatte tutte le sue funzioni corporee e mentali (cammina, parla, vede, ecc.), ma come nel nostro caso può diventare incapace di leggere.
Apparentemente - dice Konstantinos Priftis primo autore dello studio - potrebbe sembrare un deficit di poco conto se paragonato a una paralisi, ma un’incapacità di lettura comporta per la persona l’impossibilità di informarsi tramite un giornale, di progredire nella sua carriera professionale, seguire la trama di un romanzo, comprendere i contenuti di un contratto scritto, leggere la lista di una spesa che lui stesso può aver scritto, consultare la rubrica telefonica del suo cellulare. Le conseguenze nella vita quotidiana del paziente possono essere tremende».
Il paziente studiato affetto da COVID-19 documentato da tamponi è stato ricoverato correttamente in vari reparti dell’ospedale. Per diverse settimane presentava i classici sintomi del virus come i deficit respiratori. Dopo tre giorni dalla negativizzazione dal COVID-19, il paziente ha accusato la perdita della vista nella parte destra del campo visivo: un esame tempestivo neuroradiologico ha rilevato la presenza di un ictus ischemico a carico della parte posteriore dell’emisfero cerebrale sinistro. Immediatamente è stato sottoposto a una valutazione neuropsicologica tramite 15 test su tutta la sfera delle funzioni cognitive (percezione, attenzione, memoria, linguaggio orale e scritto, operazioni aritmetiche e calcolo, capacità di disegno e pianificazione). Lo scopo dei test era capire quali funzioni cognitive fossero state risparmiate e quali invece colpite allo scopo di inserire il paziente in corretto e mirato trattamento riabilitativo.
«Il paziente è stato seguito per circa tre mesi - chiarisce Priftis - l’unico deficit di rilevanza clinica, era la sua totale incapacità nel leggere (alessia). Il paziente conservava, invece, la sua capacità a scrivere, ma era poi incapace di leggere quello che aveva tracciato sul foglio. Tutte le altre funzioni cognitive erano ampiamente risparmiate. Il paziente dopo il trattamento riabilitativo ha recuperato perfettamente la sua abilità di lettura. La specificità del caso studiato è di particolare importanza perché l’ictus si è manifestato tre giorni dopo la negativizzazione. Quindi i disturbi di coagulazione scatenati dal COVID potrebbero essere stati ancora attivi anche dopo la negativizzazione. Che il SARS-CoV-2 causi ictus non può essere direttamente dimostrato - continua Konstantinos Priftis - ma abbiamo alcune significative evidenze: il rischio dell’ictus nei pazienti con SARS-CoV-2 è due volte più alto rispetto al rischio di quelli affetti da SARS-CoV-1 o da sepsi. Inoltre, il rischio dell’ictus nei pazienti con SARS-CoV-2 è otto volte più alto se comparato ad esempio al rischio in pazienti affetti da influenza. Infine, i sintomi dell’ictus nei pazienti con COVID-19 sono molto più gravi e disabilitanti rispetto ai sintomi dell’ictus in pazienti non affetti da COVID-19. Ci sono evidenze che il COVID-19 può provocare disturbi mentali generalizzati (ansia, depressione, agitazione, ecc.). Recentemente alcuni studi hanno riportato la presenza di difficoltà di memoria e delle funzioni pianificatrici del comportamento.
Con i miei colleghi, a Bergamo prima e adesso a Treviso, siamo stati i primi al mondo a riportare casi di disturbi cognitivi extra-specifici di scrittura (Bergamo) e ora di lettura (Treviso) in paziente post COVID-19 che avevano un profilo cognitivo ampiamente risparmiato per il resto. La fortuna di questi pazienti con COVID-19 - conclude Priftis - è stata quella di essere stati ricoverati in ospedali con forti servizi di neuropsicologia. I deficit neuropsicologici sono stati immediatamente diagnosticati e i pazienti sono stati sottoposti a interventi di riabilitazione neuropsicologica coronati da massimo successo. Se fossero capitati in strutture prive di servizi di neuropsicologia molto probabilmente nei pazienti sarebbero rimasti residui disturbi cognitivi permanenti. Ritengo che la valutazione e riabilitazione neuropsicologica debba essere fornita a tutti i pazienti con COVID-19 che presentano difficoltà cognitive».
Link alla ricerca: https://link.springer.com/article/10.1007/s10072-021-05211-4