Se lo è chiesto, supportato da diverse ricerche pubblicate negli ultimi tempi, il periodico statunitense Atlantic Monthly, in un articolo (a firma di Nichola Carr) dal titolo “Is Google making us stupid?”. A partire dalla constatazione personale di una difficoltà sempre maggiore a concentrarsi su testi lunghi e impegnativi (cosa che peraltro è sempre stata il suo mestiere), l’autore dell’articolo si domanda se non sia colpa dell’uso continuo del web, che ci ha ormai convertiti stabilmente a un altro stile di lettura. E le sue paure sono confermate da uno studio recente dello University College London, che ha esaminato per cinque anni il comportamento dei visitatori di due importanti siti di ricerche online, che danno accesso ad articoli, libri elettronici e altre fonti di informazioni.
Risultato: gli utenti di questi siti (che, si noti, non sono siti di intrattenimento ma strumenti di ricerca accademica o professionale) leggono in media non più di una o due pagine di un articolo prima di spostarsi su un altro sito. Saltano molto da una fonte di informazioni a aun’altra, e raramente tornano due volte sulla stessa.
Secondo gli autori dello studio: “è chiaro che gli utenti non leggono nel senso tradizionale del termine: piuttosto sembra che stia sorgendo una nuova forma di lettura, in cui gli utenti internet si spostano orizzontalmente tra titoli, pagine e abstract, in cerca di una facile vittoria. Sembra quasi che vadano online per avitare di leggere nel senso tradizionale.
Dati che sembrano confermare le paure messe nero su bianco qualche anno fa dalla psicologa Maryanne Wolf nel libro “Proust and the Squid: The Story and Science of the Reading Brain”. Wolfm, in quel libro, lanciava un allarme a tutti gli internauti: che lo stile di lettura a cui ci abitua il web potrebbe compromettere seriamente e permanentemente la nostra capcità di lettura approfondita, costruita a fatica in secoli di rapporto con la carta stampata. La lettura, avvisa infatti Wolf, non è un processo naturale o istintivo. È una abilità che coltiviamo con fatica fin dai primi anni di età, e che indirizza in modo preciso lo sviluppo di alcune parti del nostro cervello.Tanto è vero che è dimostrato che i lettori di ideogrammi, come i cinesi, sviluppano circuiti neuronali diversi da quelli caratteristici dei lettori di caratteri alfabetici, come siamo noi. Se è così, allora le nuove generazioni svezzate su Internet sono destinate ad avere uno sviluppo neurale diverso, magari più adatto alla lettura trasversale e ipertestuale tipica del web, e meno alla lettura concentrata e in profondità richiesta dai libri in cui è depositata (tuttora) la gran parte della conoscenza prodotta dal genere umano.
Che i mezzi di comunicazione abbiano una straordinaria capacità di modellare, anche su tempi molto brevi, i nostri meccanismi cognitivi, e di agire in molti modi sul nostro stesso organismo, lo aveva d’altronde già mostrato in tempi non sospetti Marshall McLuhan. I timori di Carr meritano quindi considerazione. D’altronde, è anche vero che tutto dipende da quale confronto si sceglie di fare. Il web sarà pure un medium più superficiale e frettoloso e orizzontale rispetto al libro. Ma è di certo molto più profondo e stimolante (per i neuroni, si intende) della televisione, a cui ormai fa da tempo una concorrenza sempre più diretta. È quanto sosteneva in modo convincente, per esempio, un libro di alcuni anni fa, “Tutto quello che ti fa male ti fa bene”, del giornalista scientifico Steven Johnson. Citando Steve Jobs, il padre padrone di Apple, Johnson ricordava che mentre la televisione è un medium che ci fa inclinare all’indietro (sul divano, si intende), Internet ci fa inclinare in avanti, costringendoci a fare delle scelte e a partecipare alla creazione stessa dell’informazione che abbiamo davanti. Non solo, ma la frenetica innovazione che caratterizza il web (pensate negli ultimi anni alla nascita di blog, social network, ognuno con la sua grammatica caratteristica e logiche di funzionamento diverse) ci costringe a imparare continuamente nuovi linguaggi, una ginnastica mentale sconosciuta ad altri media che invece rimangono uguali a se stessi da decenni se non da secoli. Internet, insomma, ci potrebbe in realtà finire per scongiurare il pericolo di declino cognitivo a cui invece ci stava esponendo la televisione.
Nicola Nosengo