Saideke Balai – Worrions of the Rainbow: Seediq Bale
SaideKe Balai – Worrions of the Rainbow: Seediq Bale di Te-Sheng Wei, in concorso a Venezia ’68, è un vero e proprio kolossal prodotto, tra gli altri, da John Woo. Ben 25 milioni di dollari per raccontare il tentativo di ribellione della tribù aborigena degli Atayal contro i coloni giapponesi, insediati nell’isola di Taiwan dal 1895 al 1945. Il rigoglioso territorio di Wushe, pieno di acqua, minerali, montagne, sembra sacro e magico già al primo impatto con la pellicola; infatti, la storia di questo massacro trascende la legge della guerra prodotta dell’uomo, innalzandola ad una dimensione alta, come un arcobaleno di sacralità intriso di dolore, rimorso e sangue. Siamo di fronte ad una natura che impone leggi dolorose, inondate di sangue ad ogni tappa della vita, partendo da quella iniziatica del guerriero, affinché possa fregiarsi con orgoglio dei tatuaggi di appartenenza…altro che moda e frivolezza odierne! Per noi occidentali di oggi è difficile comprenderlo ma la purezza delle tradizioni, del rispetto dei morti – anche i latini avevano il culto dei Lari e dei Penati – come la donazione della propria vita per una causa d’appartenenza intima, potrebbero condurre lo spettatore alla riscoperta dell’essenza e del valore dell’essere. La morte certa a cui vanno incontro i ribelli, vincendo per orgoglio e principio già in partenza, pur nella sconfitta e nel massacro sacrificale, è un tema già contemplato nella letteratura teatrale ma qui, purtroppo, è un drammatico riporto storico. Shakespeare, ad esempio, ne parla per bocca di Amleto, nel monologo del IV Atto, a proposito di Fortebraccio, ultimo appello, per giunta, della sua coscienza al principe indeciso.
Nel film, c’è il grande capo temerario e carismatico – Mouna Rudo - e c’è chi è debole e non sa prendere posizioni, ci sono buoni e cattivi che stringono alleanze ma quel che conta e prevarica qualsiasi legame è la difesa delle tradizioni ancestrali. Una delle scene più poetiche, infatti, è il colloquio tra il capo dei selvaggi e suo padre morto, che scompare in dissolvenza dentro l’acqua purificatrice della cascata. Va aggiunto, tuttavia, che la sceneggiatura non è proprio perfetta, si ravvisano, infatti, delle lacune – le donne decise al suicidio, col volto dipinto, lasciando i piccoli da soli, sono in contrasto con il desiderio del capo di lasciare a sua sorella il testimonio per la continuazione del clan. Le scene di massacro, inoltre, pur accattivanti nel ritmo, sono molto ridondanti, a volte a scapito dell’introspezione psicologica dei personaggi e sacrificano, in generale, un’esplicazione più chiara dei vari step del plot.
Margherita Lamesta