Lo studio del polline ha consentito di comprendere i cambiamenti nei paesaggi e nelle attività agricole intercorsi tra il 1250 e il 1450 d.c., cioè 100 anni prima e 100 anni dopo la pandemia.
Il team internazionale di studiosi guidato dal gruppo Paleo-Science and History del Max Planck Institute for the Science of Human History e coordinato da Alessia Masi, ricercatrice del Dipartimento di Biologia ambientale e dallo storico Adam Izdebski, ha utilizzato un nuovo approccio, chiamato Big-data paleocology (BDP).
Il gruppo di ricerca ha analizzato 1634 campioni contenenti polline per osservare le tipologie e quantità di piante cresciute, nonché determinare l’entità delle attività agricole e della presenza di piante spontanee prima e dopo la pandemia. Infatti, lo fruttamento del territorio dovuto alle attività agricole e di diboscamento in epoca preindustriale dipendeva dalla disponibilità di forza lavoro: terreni molto coltivati attestano la presenza di popolazioni consistenti; al contrario aree incolte ne dimostrano l’assenza.
Dai risultati emerge una grande variabilità nell’uso del territorio e quindi nei tassi di mortalità. In particolare, regioni come la Scandinavia, la Francia, la Germania sud-occidentale, la Grecia e l’Italia centrale presentano un forte declino agricolo a riprova degli alti tassi di mortalità già attestati in numerose fonti medievali. Al contempo, molte aree, tra cui gran parte dell’Europa centrale e orientale e dell’Europa occidentale come l’Irlanda e la penisola iberica, hanno registrato una continuità se non addirittura una crescita nelle attività sul territorio.
La ricerca dimostra che, per studiare il tasso di mortalità in una specifica regione e misurare il cambiamento dei paesaggi, è importante utilizzare nuovi approcci, come ad esempio la BDP.
Finora, molte delle fonti utilizzate per quantificare il fenomeno provenivano da aree urbane dove era certamente più facile raccogliere informazioni e tenere registri ma che allo stesso tempo si caratterizzavano per affollamento e scarse condizioni igieniche. Tuttavia, verosimilmente, a metà del XV secolo, più del 75% della popolazione in ogni regione europea era rurale.
“La significativa variabilità nella mortalità che il nostro approccio BDP identifica rimane da spiegare, ma i contesti culturali, demografici, economici, ambientali e sociali locali devono aver influenzato la prevalenza, la morbilità e la mortalità data da Y. pestis”, afferma Laura Sadori, coautrice dello studio insieme a Cristiano Vignola del Dipartimento di Biologia ambientale e a Lucrezia Masci del Dipartimento di Scienze della Terra.
Le differenze nella mortalità in Europa evidenziano che la Peste Nera era una malattia dinamica, con fattori culturali, ecologici, economici e climatici che influivano sulla sua diffusione e sul suo impatto. “Non esiste un unico modello di pandemia che possa essere applicato a qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, indipendentemente dal contesto”, sostiene Adam Izdebski che aggiunge “Le pandemie sono fenomeni complessi che hanno storie regionali e locali. Abbiamo visto questo con COVID-19, ora lo abbiamo dimostrato con la Peste Nera”.