Ma faceva parte della pena che il cadavere non trovasse sepoltura ancora intatto e fosse esposto allo sguardo dei passanti, in segno di disprezzo per i morti ma anche di monito per i vivi. L'imperatore Tito, nel 71 d.C., concluso con successo l'assedio di Gerusalemme, fece crocifiggere fuori della città gli sconfitti al tasso di 500 al giorno, fintanto che non ci fu più posto ove piantare le croci (o almeno così la racconta lo storico ebreo Giuseppe Flavio).
Soltanto con Costantino, nel 341 d.C., la crocifissione venne ufficialmente abolita dal novero delle condanne a morte, anche se già da tempo vi si faceva ricorso assai di rado. E ciò malgrado la storia di questa infamante pena capitale non giunse a termine. Casi di giustiziati sulla croce si ritrovano nelle cronache di vari secoli successivi, anche se si è trattato per lo più di vicende accadute in luoghi distanti dall'Europa continentale.
Tra gli altri, sono ben documentati i casi di un giovane turco che subì questo martirio nel 1247 a Damasco e quelli di alcuni gesuiti e altri religiosi giapponesi ed europei che a motivo della loro fede vennero crocifissi a Nagasaki il 5 febbraio del 1597.
Nel 1824 il capitano inglese Clipperton vide in Sudan un uomo agonizzare per tre giorni sulla croce e da un autore posteriore è stato riferito che il reverendo McElders, anch'egli inglese, avrebbe constatato intorno alla metà dell'Ottocento che questo tipo di condanna a morte veniva comminato con una certa frequenza nel Madagascar.
Ci sono testimonianze secondo le quali anche nei campi di prigionia austroungarici, nel corso della prima guerra mondiale, si praticava la crocifissione e almeno un testimone oculare ha parlato di atti simili compiuti dai nazisti nel campo di concentramento di Dachau durante la seconda guerra mondiale.
Ovunque e da chiunque – compresi coloro i quali la infliggevano – questa forma di pena capitale è stata giudicata come la più crudele, la più infamante, la più disumana. Consisteva nel dare la morte con lentezza allo scopo di aumentare e portare a un limite insopportabile la sofferenza del condannato.
Il corpo di quest'ultimo si sfigurava orribilmente e non è un caso che i giustiziati, con una scritta che denotava il loro crimine, venissero lasciati per giorni sulla croce esposti allo sguardo dei passanti: la vista di uno spettacolo tanto drammatico era considerata il deterrente migliore contro chi avesse la tentazione di commettere lo stesso reato che già aveva prodotto una morte simile.
Reato di tradimento, per lo più, presso gli ebrei, che comunque in genere le preferivano l’uccisione per lapidazione.
Anatomia del supplizio
La croce era, nel mondo antico, sostanzialmente divisa in due parti che, ricomposte, formavano una sorta di T, con un asse verticale che veniva conficcato nel terreno e un «patibulum» destinato ad essere collocato trasversalmente. Il piede e il patibulum erano dello stesso legno: il primo lungo circa 2,5-3,5 metri, il secondo di 150-180 cm.
Il patibulum presentava un foro in corrispondenza della porzione centrale, così da poter essere incastrato sulla sommità dell'asse verticale a formare una struttura solida, ben piantata a terra. Occasionalmente sull'asse verticale veniva apposto un «sedile» ad altezza opportuna, per permettere al condannato di appoggiarvi il peso del corpo.
Nel periodo romano e quando la crocifissione era abbastanza frequente gli assi verticali erano già posizionati conficcati al suolo, pronti a svolgere la loro funzione: in generale disposti fuori delle mura di cinta della città, raccolti in un'area appositamente destinata alle esecuzioni. L'asse trasversale era invece mobile e veniva portato sulle spalle dal condannato, da dove gli veniva comminata la pena fino al luogo ove doveva avvenire la crocifissione.
Questa rappresentava in sostanza soltanto l'ultimo atto di un supplizio che iniziava con la fustigazione del condannato, spogliato delle vesti e legato a una colonna. Il numero e la violenza dei colpi di frusta determinavano lacerazioni più o meno profonde dei tessuti cutanei e sottocutanei del condannato, che poteva andare incontro a perdite ematiche consistenti e a traumi gravi che ne comportavano la morte.
Di tutti i sistemi giuridici, soltanto la legge romana sanciva esplicitamente che la vittima dovesse spirare in croce e che quindi occorresse evitare che la sua morte in questa fase preliminare. Ad ogni modo il supplizio determinava un notevole indebolimento dell'organismo, destinato ad accentuarsi con la prova successiva cui il condannato era costretto: portare il patibulum sulle spalle fino al luogo della crocifissione.
Le braccia del condannato erano distese e legate con corde all'asse trasversale della croce, appoggiato sulle sue spalle. Una scritta che specificava il crimine di cui si era macchiato gli veniva appesa al collo e in queste condizioni si doveva compiere il tragitto fino al luogo del supplizio finale.
A causa del peso non trascurabile del patibulum, della già subita fustigazione e delle asperità del terreno, era molto probabile che lungo il percorso il condannato cadesse più volte a terra con la faccia in avanti; il fatto di avere le braccia distese e legate all’asse trasversale gli impediva di proteggersi il viso.
Una volta giunto al luogo della crocifissione, comunque, gli veniva data una mistura di mirra e vino acre, allo scopo di alleviargli parzialmente il dolore.
Crocefissione
Disteso con la schiena a terra, le mani del condannato erano fissate alla croce mediante chiodi ed eventualmente assicurate meglio legandole al patibulum con pezze di stoffa annodate. In mancanza di una documentazione precisa che specifichi il punto ove i chiodi venivano conficcati, diversi autori hanno compiuto vere e proprie indagini sperimentali nell'intento di chiarire la questione.
Il chirurgo francese Pierre Barbet, nel 1931, ha applicato un peso consistente al braccio prelevato da un cadavere e l'ha poi appeso conficcando un chiodo al centro del palmo della mano: entro pochi minuti i tessuti molli si sono lacerati, indicando che non sarebbe stato possibile, in questo modo, sospendere in croce un individuo.
Fra Angelico: La morte sulla Croce (circa 1445) Firenze, San Marco.
Maggior «successo» ha ottenuto invece inserendo un chiodo a sezione quadrata all’altezza della prima piega del polso, riuscendo a dimostrare in questo modo che sono sufficienti tre chiodi per mantenere un corpo umano adulto attaccato a una croce.
Successivamente, un altro autore ha ipotizzato che i chiodi venissero passati in uno spazio tra le ossa carpali e metacarpali, mentre un ricercatore israeliano, V. Tzaferis, riferendosi alle lesioni visibili in uno scheletro rinvenuto a Giv'at ha-Mivtar, nel 1970 ha sostenuto la tesi che i chiodi venissero infissi alla base del polso, così che il peso del corpo fosse sostenuto dall'unione delle estremità distali di radio e ulna.
Pochi anni dopo, comunque, l'interpretazione dei segni di quello scheletro come tracce di chiodi è stata contestata da altri specialisti israeliani – dell'opinione che si trattasse soltanto di lesioni accidentali dovute alle operazioni di sepoltura – e ciò di fatto ha riaperto il problema, sul quale ha continuato a persistere una certa disparità di opinione.
Recentemente nuove indicazioni per la localizzazione al polso sono state fornite da un altro francese, B. Lussiez, che ha anche verificato con prove su cadaveri che l’infissione di chiodi in quella posizione risulta particolarmente facile: è la conformazione stessa dell’articolazione a guidare naturalmente il chiodo, dopo un primo colpo di forza media, a incunearsi negli spazi liberi tra le ossa di quel distretto anatomico.
Lussiez ha ripetuto le prove ottenendo il medesimo risultato anche ponendo un tassello di legno al di sopra della porzione ventrale del polso, come pare avvenisse nell’antichità.
I suoi dati sembrano confermare ora in via definitiva in questa soluzione al problema della localizzazione dei chiodi. Un’altra rilevante disparità di opinioni permane tuttavia tra gli studiosi in merito alla posizione assunta dal corpo della persona crocifissa, una volta che il patibulum era stato issato sopra lo stelo, a formare la croce.
Per alcuni, le braccia del condannato erano girate dietro il patibulum e i piedi inchiodati ai due lati dell'asse verticale, così che il corpo potesse sorreggersi per un periodo piuttosto lungo; per altri un unico chiodo attraversava le ossa del metatarso dei due piedi sovrapposti l'uno all'altro e questo era l'unico appoggio sul quale il condannato potesse far leva per alleviare il carico ponderale applicato ai chiodi dell'arto superiore.
Sono state ipotizzate posizioni decisamente insolite, come ad esempio che il condannato fosse voltato con la faccia verso la croce, ma le considerazioni che hanno motivato simili proposte non sembrano scientificamente o storicamente fondate. Ancora Tzaferis, sulla base dei resti ossei ritrovati in antichi luoghi di sepoltura, ha così ricostruito quella che per lui era la modalità più comune di crocifissione: «I piedi erano uniti in posizione quasi parallela ed entrambi trafitti al calcagno dallo stesso chiodo, con le gambe adiacenti.
Le ginocchia erano piegate, con il destro sovrapposto al sinistro. Il busto, girato di lato, sedeva su un appoggio. Le braccia erano distese verso l'esterno, ciascuna fissata con un chiodo all'avambraccio».
Una volta sulla croce, il condannato poteva sopravvivere per periodi variabili, in dipendenza di una serie di fattori: robustezza e costituzione fisica, età e stato di alimentazione, intensità della fustigazione e dei maltrattamenti subiti in precedenza, quantità di sangue e di liquidi corporei perduti, numero e gravità delle ferite riportate.
Secondo la maggior parte degli autori, la morte sopraggiungeva di solito dopo diverso tempo, da uno o due giorni fino a quattro o cinque; ma Origene ha citato due condannati, Timoteo e Maura, che non morirono che al decimo giorno.
La lunga durata della sofferenza d'altronde faceva parte della pena e ad avvalorare questa tesi sono almeno due macabri particolari: uno rappresentato dal piccolo appoggio posto lungo il braccio verticale della croce che doveva servire al condannato per «riposarsi» e non cedere alla sofferenza, l'altro costituito dall'usanza di spezzare le ossa di braccia e gambe del crocifisso quando si voleva accelerarne la fine.
Rubens: Cristo in Croce (1613), Anversa, Koninklijk Museum
Ovviamente la capacità di resistenza del condannato dipendeva anche dal tipo di crocifissione attuato. Se il peso del corpo era sorretto dalle braccia accavallate al patibulum i tempi potevano protrarsi anche molto; se il tronco era contorto di lato, ciò affrettava il momento della morte.
In questa fase i singoli aspetti della sofferenza si univano e si sovrapponevano accentuandosi a vicenda. Notevole doveva essere il dolore dovuto alle ferite, su alcune delle quali si esercitava ancora la sollecitazione del peso del corpo. La difficoltà di respirazione determinata dall'estensione della gabbia toracica veniva a tratti alleviata, fin quando il condannato aveva la forza di tirarsi su facendo leva sulle braccia o sorreggendosi sulle gambe e sul piccolo sedile della croce.
E insopportabile si faceva la sete, conseguente alla perdita di ingenti quantità di liquidi che presto subentrava; se il supplizio si protraeva, allora si manifestavano anche febbre e fame.
Atto finale
Anche sulla natura della morte per crocifissione manca un accordo totale tra gli esperti che si sono occupati della questione. Ipotizzata nel 1925 e poi riproposta da Barbet nel 1953, l’ipotesi più «tradizionale» vuole che il decesso derivasse da asfissia, in accordo d’altronde con quanto era stato asserito da alcune testimonianze «recenti» di torture inflitte a prigionieri, rispettivamente, durante la prima guerra mondiale e nel campo di concentramento di Dachau.
In quest'ultimo caso chi fornì la testimonianza (un individuo senza cultura medica) parlò di condannati che «venivano appesi per le mani, affiancate o distanziate. I piedi erano a qualche distanza dal suolo. Dopo poco la difficoltà di respirare diventava intollerabile. La vittima cercava di alleviarla tirandosi sulle braccia, il che le permetteva di riprender fiato: riusciva a tirarsi su ogni trenta o sessanta secondi.
Poi gli attaccavano dei pesi ai piedi per renderlo più pesante e impedirgli di fare in quel modo ed entro tre o quattro minuti sopraggiungeva l'asfissia. All'ultimo momento toglievano i pesi, in modo che potesse riprendersi tirandosi nuovamente su... dopo un'ora questo sollevarsi diventava sempre più frequente, ma anche sempre più debole.
L'asfissia aumentava progressivamente, come era evidente dal fatto che la gabbia toracica si dilatava al massimo e la zona epigastrica si faceva estremamente concava... La pelle diventava violetta. Una sudorazione abbondante cominciava in tutto il corpo, cadendo a terra e bagnando il pavimento. Era particolarmente abbondante, in maniera straordinaria, durante gli ultimi minuti prima della morte.
I capelli e la barba ne erano letteralmente bagnati» (testimonianza raccolta da Barbet). Un'altra osservazione, relativa a un individuo appeso per i polsi, rivelò un pallore diffuso in pochi minuti, respirazione superficiale, caduta della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, pronunciata diminuzione della capacità vitale: tutti segni in accordo con l'ipotesi di una morte per asfissia.
In un esperimento effettuato di recente (Scott, 1995) questo quadro è stato sostanzialmente confermato: un individuo crocifisso con chiodi ai piedi tenderebbe a sollevarsi finendo per assumere una posizione asimmetrica, ma lo sforzo dopo un po' porterebbe a un'iperestensione dei polmoni, a disidratazione, ipovolemia e acidosi respiratoria e metabolica.
Si produrrebbero crampi muscolari, mentre si acuirebbero il dolore delle ferite e il senso di sete. Con il passare del tempo aumenterebbe la fatica di tirarsi su e i momenti di riposo si distanzierebbero, finché alla fine si cederebbe all'asfissia
A favore dell'ipotesi della morte per difficoltà respiratorie si erano pronunciati anche altri autori nel 1963, sebbene sia da segnalare che quindici anni dopo alcuni specialisti americani hanno sostenuto che questo non sarebbe altro che un cofattore all'interno di una situazione più complessa, che prevederebbe anche insufficienza cardiaca e versamento pericardico.
Un cedimento del cuore è stato suggerito oltre cento anni fa e riproposto da autori recenti; mentre embolia coronarica successiva a ipovolemia, ipossiemia e turbe della coagulazione, in grado di determinare infarto miocardico, è al centro della tesi avanzata nel 1986 sul JAMA da un gruppo di specialisti americani.
Alla metà del secolo scorso è stato teorizzato che la morte per crocifissione fosse dovuta a insufficienza cardiaca secondaria a uno shock prodotto dallo sfinimento, dal dolore e dalla perdita di sangue: posizione condivisa integralmente da vari cardiologi (1964) e altri specialisti all'interno di quadri più articolati.
Un esperimento dal vivo
Venticinque anni fa è stata pubblicata (su una rivista di medicina legale canadese) quella che è forse la ricerca sperimentale più completa sulla crocifissione, mirante a raccogliere informazioni attendibili sulle alterazioni di tutti i principali parametri vitali.
La croce usata era alta circa 2,30 metri, con braccia lunghe 2 metri, e i volontari – giovani sani di 20-35 anni – vi sono stati fissati mediante una sorta di guanti di cuoio per i polsi e con legacci per i piedi. La sospensione è durata dai 5 ai 45 minuti, durante i quali sono state effettuate registrazioni ECG, rilevazioni di pressione sanguigna, frequenza cardiaca, respirazione e capacità vitale, emogasanalisi e prelievi di sangue venoso.
È stato svolto un attento controllo delle difficoltà respiratorie; sono state valutate le alterazioni del colorito cutaneo; è stata tenuta nota delle contrazioni muscolari e della sudorazione. I volontari, inoltre, erano tenuti a segnalare le sensazioni di dolore, le difficoltà respiratorie avvertite e ogni alterazione delle loro condizioni psicologiche.
Dal punto di vista dei movimenti effettuati dopo la crocifissione, si è notato che quei soggetti tendevano a puntare il peso del corpo sui piedi, con la conseguenza che i gomiti si piegavano ma i polsi rimanevano praticamente nella posizione precedente. Tutti i volontari hanno denunciato crampi alle gambe, alle braccia e alle spalle. Entro pochi minuti il loro respiro si faceva molto frequente e raggiungeva valori anche quattro volte quelli normali. Entro sei minuti iniziava una sudorazione copiosa e molti soggetti mostravano opistotono.
Subito dopo si producevano contrazioni muscolari, sebbene non si manifestassero ancora particolari difficoltà respiratorie. A questo punto, comunque, alcuni soggetti hanno ammesso di aver provato un'intensa sensazione di panico. La tachicardia raggiungeva i 120 battiti/minuto, però non sono stati registrati casi di aritmia. La pressione sanguigna si innalzava. Non sono state osservate alterazioni del tratto ST sull'ECG.
La saturazione dell'ossigeno e il pH arterioso rimanevano immodificati, mentre la pO2 era stabilmente su valori medi di 98 mmHg. I livelli di acido lattico toccavano i 48mg%; la SGOT saliva oltre 2 volte e mezza il normale e la CPK si quintuplicava (ma senza la componente cardiaca).
L'autore dello studio ne ha concluso che la morte in croce dovesse avvenire non per asfissia bensì per shock: le percosse ricevute dal condannato determinavano lesioni traumatiche alla parete toracica, con interessamento dei polmoni; si accentuavano disidratazione, ipotensione e ipossia, con sviluppo di acidosi, anormalità degli elettroliti e susseguente aritmia cardiaca.
L'insufficienza coronarica e l'ischemia del miocardio diminuivano la gettata e in ultimo si produceva arresto cardiaco. II quadro sembra convincente, ma è stato osservato che un conto sono esperienze che durano pochi minuti, per di più eseguite con giovani volontari in buona salute, un altro i casi reali di crocifissione, che coinvolgevano di norma individui debilitati e comunque sottoposti al supplizio per ore o giorni.
D'altra parte si dovrebbe forse non trascurare un elemento che invece non è stato mai preso in considerazione nelle esperienze e nelle analisi documentarie: quello delle condizioni climatiche dei luoghi ove maggiormente si praticava l'esecuzione (Medio Oriente e Paesi del Mediterraneo), condizioni caratterizzate da notevole calore nelle ore del giorno e da freddo intenso durante la notte.
L'esposizione a stati atmosferici tanto diversi poteva incidere su diversi parametri fisiologici e avere un ruolo non indifferente nel processo che portava a morte il condannato. Di fatto, gli studi su questo tema hanno mancato finora di registrare un accordo generale tra gli esperti che se ne sono occupati, desiderosi alcuni di salvaguardare certi presupposti religiosi, intenzionati altri a vagliare la questione soltanto con il criterio dei dati della scienza medica.
Non tenendo conto degli studi pubblicati in forma di volume, richiamando in PubMed la voce «crucifixion» risultano censiti nell’editoria scientifica internazionale 24 articoli specialistici, un terzo dei quali relativo ai soli anni Duemila.
Se quella che pare una tendenza all’intensificazione degli interventi in questo settore continuerà ancora, è possibile che in un futuro non molto lontano si debbano prendere in considerazione nuove ricerche, nuove ipotesi e nuovi modelli esplicativi su questa antica pratica di esecuzione, che nonostante la sua drammatica e violenta fama ha avuto un ruolo rilevante all’interno della storia, sia religiosa che laica.
Autore: Massimo Biondi