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La review, pubblicata sulla rivista Epigenetics & Chromatin dai ricercatori della Sapienza, fa il punto sulle conoscenze riguardanti il complesso multiproteico TIP60, in particolare sulle sue funzioni “non canoniche” relative alla mitosi. Lo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti della divisione cellulare e nell’individuazione di strategie terapeutiche
Il complesso multiproteico TIP60 è una sorta di “centralina” cellulare che controlla il rimodellamento della cromatina. La cromatina è la sostanza che compone il nucleo delle cellule ed è costituita da DNA avvolto a mo’ di gomitolo attorno alle proteine.
TIP60 svolge un ruolo cruciale per il corretto funzionamento delle cellule, regolando, tra l’altro, l’espressione dei geni e le sue alterazioni possono contribuire all’insorgenza di patologie umane, tra cui il cancro e disturbi dello sviluppo neurologico.

Pubblicato in Medicina


Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’ International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi)
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.

Pubblicato in Scienza generale


Chiarito il meccanismo mediante il quale le infezioni gravi da SARS-CoV-2 causano trombosi
Pubblicata su «Communications Biology» la ricerca dell’Università di Padova

Le malattie trombotiche rappresentano la principale causa di morte e di ricovero ospedaliero. Possono insorgere come patologie indipendenti o essere associate a complicazioni di altre malattie (diabete di tipo 2, cancro, malattie autoimmuni a base infiammatoria e amiloidosi). Le evidenze cliniche indicano che anche le malattie infettive, causate da batteri o virus, rappresentano dei fattori di rischio importanti per le patologie trombotiche. La coagulazione, di per sé, è un processo fisiologico finalizzato a prevenire la perdita di sangue dal sistema cardio-circolatorio. Se attivato però in maniera anomala si determinano coaguli patologici (trombi) che causano l’occlusione dei vasi sanguigni e la morte dei tessuti che si trovano a valle dell’occlusione.

Pubblicato in Medicina

 


Un team di ricercatori della Sapienza, dell’Università di Bari parte dell’infrastruttura di ricerca METROFOOD-IT ha individuato la traccia caratteristica e infalsificabile del pane fatto con il "lievito madre”. Il risultato, pubblicato sulla rivista Food Chemistry, servirà a creare modelli di autenticazione a garanzia della sicurezza e della qualità dei prodotti agro-alimentari
Non sarà solo l’etichetta a certificare gli ingredienti o la qualità di un prodotto della nostra tavola. È in arrivo infatti una firma spettroscopica, segno unico e inequivocabile delle caratteristiche e delle proprietà dei cibi, che contribuirà ad assicurare al consumatore finale, ma anche a chi produce e distribuisce, uno standard qualitativo elevato e costante.

Pubblicato in Scienza generale
 
 
A scientific study has identified euphol, a powerful toxin found in the Damara milk bush (Euphorbia damarana), as the primary cause of the plant's toxicity. The research, however, also reveals that this same compound shows promise as a potential new tool in the fight against cancer.
Published in the South African Journal of Botany, the article "Isolation and identification of the primary toxin in the smoke of the Namibian milk bush, Euphorbia damarana" by M. P. Degashu et al., details the isolation and identification of the main toxin in the smoke of this poisonous plant. Native to the desert regions of Namibia and southern Angola, the Damara milk bush has long been known for its dangers. Traditionally, Bushmen used its toxic milky sap to create poisoned arrows for hunting, and while its sap is lethal to most animals and humans, some species like the oryx and black rhino are known to feed on its stems.

A Scientific Explanation for a Tragic Legend
The research was inspired by a tragic event from the 1960s. A group of 27 migrant miners, working in a lithium mine near the Namibian town of Uis, used dried branches of the Damara milk bush to fuel a barbecue. Unaware of the plant's toxic smoke, they cooked their meat over the fire. The volatile compounds released during combustion infused the meat, making it deadly. All 27 miners died that same night after eating the meal.

This tragic event became a local legend, and the miners' burial site is located next to the remains of a dead E. damarana plant, a detail documented by a photo in the scientific paper. The new research provides a definitive scientific explanation for this decades-old story, confirming that euphol was the culprit behind this horrific incident.

Toxin Identified: A New Hope Against Cancer
The researchers identified the triterpenoid euphol as the main compound present in both the smoke and stem extracts of the plant. They also detected smaller concentrations of phorbol ester compounds. When purified euphol was tested on eight different human cancer cell lines (A549, PC-3, HeLa, HepG2, MCF-7, MCF-12A, MRC-5, and HaCaT), the results were significant.
Both the purified euphol and the plant extracts showed strong cytotoxic activity on all tested cell lines, meaning they were highly effective at killing the cells. The very low IC50 values—the concentration needed to inhibit 50% of cell growth—indicate euphol's potent effect. Given the high concentration of euphol in the smoke (10.3 mg/g) and its proven toxicity, the study concludes that euphol is indeed the main toxin in E. damarana and was responsible for the miners' deaths.

This research has major implications for public safety, especially for communities living near the plant. It scientifically validates traditional knowledge about the plant's dangers and provides a clear chemical and biological explanation for its toxic effects. The finding that the smoke, and not just the sap, is highly toxic highlights a less-obvious and often underestimated risk.
Beyond its importance in toxicology, this study also offers concrete data on the cytotoxicity of a natural compound. This could pave the way for future pharmacological research, including the development of new anti-cancer drugs. The study serves as a powerful example of how science can validate traditional wisdom and explain mysterious historical events, ultimately improving the safety and health of local populations.
 
Isolation and identification of the primary toxin in the smoke of the Namibian milk bush, Euphorbia damarana
Pubblicato in Scienceonline


Lo studio scientifico "Isolation and identification of the primary toxin in the smoke of the Namibian milk bush, Euphorbia damarana" di M. P. Degashu et al., pubblicato sul South African Journal of Botany, Vol. 170, pp. 88-96 (2024), riporta l'isolamento e l'identificazione della tossina principale presente nel fumo del "Damara milk bush" (Euphorbia damarana L.C. Leach). Questo arbusto, che cresce nelle aree desertiche nord-occidentali della Namibia e del sud dell'Angola, veniva utilizzato tradizionalmente dai boscimani per realizzare frecce avvelenate usate per la caccia. Il suo lattice, infatti, è generalmente tossico per l'uomo e per gli animali, ad eccezione dell'orice e del rinoceronte nero che si nutrono dei suoi steli.

Pubblicato in Scienza generale
Venerdì, 08 Agosto 2025 10:23

Hexophthalma hahni: the six-eyed sand spider

The Hexophthalma hahni (Karsch, 1878), also known by its synonyms Sicarius hahni and Sicarius testaceus, is an arachnid of great interest in the field of toxicology, recognized for its potent venom. This spider is characterized by dermonecrotic toxicity, meaning its bite can induce the necrosis of skin and subcutaneous tissues.

Morphology and behavior
The Hexophthalma hahni is a medium-sized spider whose coloration, which ranges from sandy yellow to reddish-brown, allows it to blend in perfectly with its arid environment, making it extremely difficult to spot. Its scientific name, Hexophthalma, is derived from Greek and means "six eyes," a distinctive feature of the Sicariidae family to which it belongs. Unlike most spiders that have eight eyes, members of this family have only six, arranged in three pairs.

Unlike many other spiders, the H. hahni does not spin a web to catch its prey. It is an ambush predator: it buries itself in the sand or under rocks, patiently waiting for unsuspecting insects or other small arthropods to pass by. Its long legs, equipped with special bristles, allow it to move nimbly across the sand. This adaptation, combined with its hunting tactic, has earned it the common nickname "six-eyed sand spider." Despite its formidable venom, the spider is reclusive and not aggressive; bites to humans are rare and occur almost exclusively when the animal feels threatened or is accidentally crushed.

Pubblicato in Scienceonline



L'Hexophthalma hahni (Karsch, 1878), noto anche con i sinonimi Sicarius hahni e Sicarius testaceus, è un aracnide di grande interesse nel campo della tossicologia, riconosciuto per il suo potente veleno. Questo ragno è caratterizzato da una tossicità dermonecrotica, ovvero la capacità di indurre la necrosi dei tessuti cutanei e sottocutanei in seguito al suo morso.

Morfologia e comportamento
L'Hexophthalma hahni è un ragno di medie dimensioni la cui colorazione, che varia dal giallo sabbia al bruno-rossastro, gli permette di mimetizzarsi perfettamente con l'ambiente arido in cui vive, rendendolo estremamente difficile da individuare. Il suo nome scientifico, Hexophthalma, deriva dal greco e significa "sei occhi", una caratteristica distintiva della famiglia dei Sicariidae a cui appartiene. A differenza della maggior parte dei ragni che ne possiedono otto, i membri di questa famiglia ne hanno solo sei, disposti in tre coppie.

A differenza di molti altri ragni, l'H. hahni non tesse una ragnatela per catturare le sue prede. È un predatore da agguato: si seppellisce nella sabbia o sotto le rocce, attendendo pazientemente il passaggio di ignari insetti o altri piccoli artropodi. Le sue lunghe zampe, dotate di speciali setole, gli permettono di muoversi agilmente sulla sabbia. Questo adattamento, unito alla sua tattica di caccia, gli ha valso il soprannome comune di "ragno della sabbia a sei occhi". Nonostante il suo temibile veleno, il ragno è di natura schiva e non è aggressivo; i morsi all'uomo sono rari e avvengono quasi esclusivamente quando l'animale si sente minacciato o viene accidentalmente schiacciato.

Pubblicato in Scienza generale


While talking about rock art in Namibia, the mind almost inevitably turns to Twyfelfontein, a UNESCO World Heritage Site. Yet, near the town of Kamanjab, lies another archaeological treasure of inestimable value, less known but equally fascinating: the Peet Alberts rock engravings [1, 2]. This site, also known as Peet Alberts Koppie, is just 6.9 km from Kamanjab and about 229 km southwest of Etosha National Park [2]. With over 1,500 engravings [2], it is considered the second-largest in Namibia for the number and quality of its works [2].

The site is located on a series of granite rock formations [4] and is named after the farmer who discovered them in the 1950s, when his farm extended over the area. For decades, the works remained an almost private secret, known only to locals and scholars, before attracting the attention of the academic world and the cultural heritage community [2].

The engravings, created on a rock surface that stretches for hundreds of meters, represent a true open-air art gallery. The iconographic repertoire is vast and testifies to the richness of animal and cultural life in the region in remote eras. The works date back to a wide span of time, estimated to be between 25,000 and 400 years ago. In particular, it is possible to distinguish two main styles, attributable to the two cultures that alternated at the site [3]:

Figurative Engravings of the San: The oldest works, attributed to the San hunter-gatherers, are predominantly figurative. Figures of rhinoceroses, elephants, giraffes, and antelopes can be clearly recognized, often depicted in motion and with a remarkable attention to detail [1]. For the San people, these engravings were not mere representations of local fauna but were closely connected to shamanic practices. The Great God Gauwa resided beneath the rock surface, and his power was infused in the large animals, especially in their fat. Consuming the fat of these animals was a ritual to infuse the spirit of the world into oneself. The site itself was considered an entrance to the spirit world, and the engravings served as a medium to interact with it.

Pubblicato in Scienceonline


Quando si parla di arte rupestre in Namibia, la mente vola quasi inevitabilmente a Twyfelfontein, un sito Patrimonio dell'Umanità UNESCO. Eppure, vicino alla città di Kamanjab, si nasconde un altro tesoro archeologico di inestimabile valore, meno noto ma ugualmente affascinante: le incisioni rupestri di Peet Alberts [1, 2]. Questo sito, noto anche come Peet Alberts Koppie, dista appena 6,9 km da Kamanjab e circa 229 km a sud-ovest del Parco Etosha [2]. Con oltre 1.500 incisioni [2], è considerato il secondo per grandezza in Namibia per numero e qualità delle opere [2].

Il sito si trova su una serie di formazioni rocciose di granito [4] e prende il nome dall'agricoltore che le scoprì negli anni '50, quando la sua fattoria si estendeva sull'area. Le opere d'arte rimasero un segreto quasi privato per decenni, note solo agli abitanti del luogo e agli studiosi, prima di attirare l'attenzione del mondo accademico e della comunità del patrimonio culturale [2].

Le incisioni, realizzate su una superficie che si estende per centinaia di metri, rappresentano una vera e propria galleria d'arte a cielo aperto. Il repertorio iconografico è vastissimo e testimonia la ricchezza della vita animale e culturale della regione in epoche remote. Le opere risalgono a un vasto arco di tempo, che si stima tra 25.000 e 400 anni fa. In particolare, è possibile distinguere due stili principali, attribuibili alle due culture che si sono alternate nel sito [3]:

Incisioni figurative dei San: Le opere più antiche, attribuite ai cacciatori-raccoglitori San, sono prevalentemente figurative. Si possono riconoscere con chiarezza figure di rinoceronti, elefanti, giraffe e antilopi, spesso raffigurati in movimento e con un'attenzione notevole per i dettagli [1]. Per il popolo San, queste incisioni non erano semplici rappresentazioni della fauna locale, ma erano strettamente connesse a pratiche sciamaniche. Il Grande Dio Gauwa risiedeva sotto la superficie della roccia, e la sua potenza era infusa nei grandi animali, specialmente nel loro grasso. Consumare il grasso di questi animali era un rituale per infondere lo spirito del mondo in sé stessi. Il sito stesso era considerato un ingresso al mondo spirituale e le incisioni servivano come tramite per interagire con esso.

Pubblicato in Redazionale

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