Per verificare l’impatto delle attività umane sulla ripartizione delle piogge tra le zone montuose e le zone pianeggianti, i ricercatori hanno preso in esame due distinte fasi storiche: la prima, dalla metà del secolo scorso fino agli anni ottanta, ha registrato in pianura una diminuzione delle piogge, rimaste costanti in altura. Nella seconda fase, fino ai giorni nostri, le maggiori variazioni di precipitazione sono state osservate nelle zone montane. La diminuzione della pioggia al Nord è considerata una possibile conseguenza del riscaldamento globale in atto. La diversa ripartizione, invece, tra pianura e montagna, rappresenta una novità. In particolare, il maggior divario tra piogge in quota e a valle si registra negli anni ottanta. La causa andrebbe ricercata proprio nel pulviscolo atmosferico: le polveri derivanti dalle attività antropiche hanno raggiunto il picco massimo a metà del decennio, con una successiva diminuzione associata all’introduzione dei limiti normativi. Il pulviscolo svolge un ruolo fondamentale nella formazione delle nuvole e, offuscando il sole, provoca una diminuzione della temperatura al suolo, modificando la dinamica atmosferica.
L’inquinamento può quindi determinare quanta pioggia cada in pianura e quanta alle altitudini più elevate. “Nella pianificazione e gestione delle risorse idriche - spiega la Professoressa Pasquero - le regioni del Nord Italia dovranno considerare, accanto agli effetti del riscaldamento globale, anche le emissioni locali di inquinanti. Solo in questo modo si potranno preservare le risorse idriche montane, che fino ad oggi hanno garantito il forte sviluppo della società nella Pianura Padana”.