Herrman, nell’affrontare e delineare la natura dell’architettura contemporanea, parte da alcune premesse fondamentali. Innanzitutto l’idea di ‘spazio urbano’, per cui le capitali europee contemporanee sono diventate la base di osservazione preferita e predeterminata per l’analisi portata avanti nel libro. L’Europa come continente, come immaginario collettivo, risulta essere una sorta di universo parallelo per la simbologia e la concettualità che ha trasmesso nel tempo. Le stesse città europee diventano allora un’atmosfera, un sogno ricorrente che gli abitanti, i migranti o i turisti ritrovano di volta in volta diversi, in base alle motivazioni o alle finalità che li spingono a vivere ed interpretare i tessuti urbani che attraversano.
Altro concetto fondamentale è quello che potremmo definire di ‘tempo urbano’, ovvero di una diversa percezione del tempo e della sua cineticità dovuta alla società contemporanea ed ai suoi ritmi di vita. Il tempo urbano è un tempo legato alla città e per la città: è un tempo velocissimo, che connette diverse culture e realtà geografiche o storiche con una fruizione immediata, per cui l’architettura è chiamata a rispondere in maniera fotografica. Ecco allora sorgere luoghi urbani temporanei, chiese o moschee negli aeroporti, festival nei mercati rionali, o finti monumenti nei luoghi di divertimento.
Tutto all’insegna dell’immediatezza, della quasi completa fusione/fissione del Sé e dell’Altro, dell’Intimo e del Pubblico.
Le persone possono pregare, commerciare, studiare, divertirsi o parlare a distanze ravvicinate in uno spazio caratterizzato solo da una diversa concettualizzazione della sua funzione sociale. Il sociale ed il personale si fondono allora all’insegna della velocità, del tempo urbano, dell’architettura-al-limite.
Da una base concettuale di spazio e tempo urbanizzati e assolutizzati quasi verso il non-spazio e il non-tempo, l’autore mette in atto tutta una seria di approfondimenti che uniscono l’esperienza personale a una metodologia innovativa. Herrman ha utilizzato la propria abilità nel con-fondersi integralmente con i luoghi e le culture in cui è vissuto con una notevole apertura metodologica: da architetto e da americano si è di volta in volta trasformato in sociologo, geografo, storico, urbanista, perfino in statistico, cambiando – per così dire – lingua e nazionalità in base al punto di osservazione in cui si è trovato.
Alla fine tra l’autore e la sua opera non c’è più distinzione netta. La fusione tra tutte queste discipline, tra tutti i luoghi osservati e vissuti dall’autore e la loro diversità diventa allora un tessuto cangiante, multicolore, completamente disteso all’umanità dell’architettura ed all’architettura dell’umanità. Tutto in quest’opera diventa fonte di riflessione e punto di osservazione: le immagini, i dettagli artistici, i riferimenti filosofici, storici, epistemologici, le radici semantiche, il carattere laico o religioso dei luoghi e delle loro rappresentazioni. Con quest’opera l’architettura non è più vista come una disciplina dello spazio secondo parametri culturali o locali, ma come una assolutizzazione dell’esperienza esistenziale di ogni uomo verso una liberalizzazione dello spazio e del tempo secondo emozioni momentanee, istintive e irrazionali. L’uomo vive di questi ipercontesti perché in sé stesso è un ipercontesto. Come ogni essere umano, al di là della razza, della lingua o della cultura, presenta diverse esigenze, memorie, traumi, affetti e sogni, così l’architettura del XXI secolo sembra superare i limiti della fissità e della staticità per aprirsi ad una diversa interpretazione della realtà, fatta di molteplici significati, di innumerevoli simboli e di profonde emotività.
L’opera è suddivisa in sette sezioni.
Nell’Introduzione Herrman definisce i concetti fondamentali dell’intera opera, spiegando le ragioni che lo hanno portato ad analizzare l’architettura ‘dello spostamento e del senza luogo’ attraverso l’osservazione dei fenomeni di migrazione, integrazione ed interazione in un’Europa estraniata e destabilizzata dalla velocità dell’epoca moderna. L’introduzione si conclude con un Temperamental Manifesto che è in realtà la negazione stessa dell’idea di manifesto filosofico. Il processo induttivo, cartesiano e classico usato per la definizione di una tipologia architettonica è completamente rovesciato dall’autore, che è partito da un processo deduttivo, all’inverso: dall’analisi della realtà e delle sue continue evoluzioni si arriva infatti ad una concettualizzazione dello spazio contemporaneo legato più alla fluidità che alla stabilità. Pertanto non si può parlare di un unico manifesto architettonico, ma di svariati rapporti che nascono più o meno spontaneamente tra gli individui (stanziali o mobili) e lo spazio (statico o temporaneo), suddividendo queste connessioni in cinque categorie filosofiche, o idee somme: sogno, sogno collettivo, spazio surrogato, mimetico ed iperreale. In ognuno di questi concetti l’architettura si rivela come uno strumento per la costruzione dell’illusione dell’identità, della spazialità o della temporalità, attraverso l’evocazione di spazi che appartengono ad altri contesti.
Dream Space (Spazio del Sogno) è legato fortemente all’influenza che l’inconscio provoca sulla percezione della realtà, al punto da spingere la volontà umana a ricreare artificialmente gli spazi che per diverse ragioni affettive, emotive o irrazionali ha già vissuto in un contesto storico antecedente. Herrman analizza con profonda attenzione l’esperienza di Sigmund Freud a Vienna, nel periodo in cui è nata la psicoanalisi in qualità di scienza e di metodologia analitica dell’animo umano. L’autore rilegge l’esperienza personale di Freud attraverso la ricreazione del suo studio viennese a Londra. Le modalità e le scelte architettoniche sono volte a riprodurre uno spazio affettivo, un locus cordis che riproduceva da un lato una condizione passata, anteriore alla fuga dall’Austria, dall’altra un rifugio, una protezione dalla distruzione dei simboli della memoria e dell’identità individuali. La sezione passa poi alle esperienze concettuali e spaziali di Walter Benjamin ed ancora di Freud, leggendo l’architettura e la psicoanalisi come espressioni parallele dell’inconscio umano, singolare e collettivo.
Collective Dream Space (Spazio del Sogno Collettivo) descrive invece un procedimento immaginifico che coinvolge non più solo il singolo, ma una collettività legata da comuni interessi, vincoli culturali, etnici o religiosi: la creazione inconscia di uno spazio collettivo. Partendo dai presupposti già descritti da Walter Benjamin e da Carl Jung, Herrman identifica tre diverse modalità in base a cui gli spazi si trasformano in un’identità collettiva condivisa: i cortili (spazio introvertito), i grattacieli (spazio verticalizzato) e le mura (spazio confinato). In base a queste tipologie l’autore propone diversi esempi che descrivono diacronicamente e dialogicamente il rapporto spazio/collettività: gli utopistici (e conformati al principio egualitaristico) Falansteri di Fourier ed i Corrales spagnoli (con un approfondimento sull’endo-migrazione iberica nel XX secolo e sulla soluzione abitativa delle case-pueblo a Madrid) descrivono efficacemente il concetto di spazio introvertito.
Le unità di abitazione di Marsiglia progettate da Le Corbusier negli anni Cinquanta, la città-satellite di Bijlmer ad Amsterdam ed i grattacieli delle Olympiades a Parigi rappresentano invece un esempio di spazio collettivo verticalizzato. Soprattutto il quartiere delle Olympiades, costruito negli anni Settanta e abitato in successione da diverse comunità di immigrati, risulta essere attualmente una delle più grandi Chinatown europee, ed è caratterizzato dalla fusione tra i simboli e le ritualità orientali e l’edilizia di massa occidentale. L’adattamento dell’architettura locale, pianificata in unità abitative popolari, alle esigenze ed alle finalità della comunità cinese ha trasformato questo spazio interstiziale di Parigi in una città cinese con templi, spazi commerciali, luoghi di ristoro, unità residenziali e soprattutto riti e manifestazioni collettive che la rendono un luogo-nel-luogo, attraverso l’estensione verticale ed una forte perimetrizzazione della comunità insediata al suo interno. Diverso è il caso degli spazi urbani definiti da un limite artificiale e culturale (il muro di Berlino ed il quartiere turco di Kreuzberg) o da un confine mitico-simbolico (il muro romano di Londra ed il quartiere bengalese di Spitafields), entrambi caratterizzati da una forte connotazione religiosa e culturale innestata su una diversa fruizione dei luoghi storici.
In Surrogate Space (Spazi Surrogati) Herrman, riprendendo gli studi sui simboli e sui segni di Saussure e di Roland Barthes, estende l’interpretazione della semiotica cognitiva e della simbologia identificativa all’osservazione di quegli spazi indeterminati – surrogati appunto – che evocano di volta in volta, in base alla volontà del referente/utente ed alla funzione familiare, religiosa, culturale o commerciale che gli viene connotata, una dimensione non-spaziale e non-definita. E’ il caso, ad esempio dei luoghi di meditazione negli aeroporti, degli hotel-appartamenti o degli uffici temporanei, spazi limitati dalla velocità della fruizione e dalla indeterminatezza architettonica, legati da una serie di simboli e di richiami figurativi all’ideale impresso nella mente e nella coscienza dell’uomo-passeggero, ma non corrispondenti ad una impressione visiva o sensoriale reale e statica. Significativamente Herrman conclude il capitolo parlando della ‘morte’ dell’architetto, parafrasando Barthes.
Mimetic Space (Spazio Mimetico) inizia non a caso con un richiamo al VII Libro della Repubblica di Platone ed al mito della Caverna: la realtà non è altro che una rappresentazione sensibile di qualcosa che riconosciamo ‘Altro-da-Noi’, ma che in fondo riusciamo appena a percepire nella sua interezza. Questo provoca negli uomini la capacità e la volontà di imitare, di riprodurre e di ricreare un Eidon platonico. Sia nel caso in cui ci si riferisca ad una rappresentazione già sottoposta all’esperienza sensibile (Mimesi), sia nel caso in cui riproduciamo ex novo e partecipiamo di un’identità distante nel tempo e nello spazio dall’esperienza sensoriale (Metessi, Parusia).
Partendo da queste premesse Herrman manifesta in ‘Camouflage’ le caratteristiche delle architetture coloniali, specie dello stile Indo-Saraceno, fornendo numerosi esempi visivi del processo di osmosi e di imitazione dell’architettura orientale indiana per edifici legati al potere coloniale ed alla sua rappresentazione. In ‘Intimidation’ l’autore analizza il processo inverso di richiamo extra moenia da parte dell’immigrato o dell’esule che intende rappresentare all’esterno la propria alterità dal contesto, e che si può ritrovare sia nelle pubblicità, sia nelle costruzioni private. In ‘Travesty’ invece lo spazio viene letto nella sua capacità illusoria tout court e l’autore presenta numerosi esempi di edifici riprodotti fedelmente in aree geografiche spesso molto distanti fra loro.
In Hyperreal Space (Spazi Iperreali) Herrman intraprende un interessante parallelo tra la città come spazio dell’azione reale e la città illusoria rappresentata - nei film, nella letteratura e nell’arte in generale - come un’entità sospesa, un’atmosfera, uno stato d’animo. E’ il caso, ad esempio, della Parigi di Truffaut e della Nouvelle Vague o della Roma raffigurata nelle Viste del XVIII secolo. In questo contesto le città assumono una connotazione più ideale che reale, ed i Media, la pubblicità e la cultura tendono ad idealizzarne ed a cristallizzarne le forme. Lo stesso accade in architettura, come nel caso del nucleo urbano di Val d’Europe, ideato ad immagine e somiglianza della Parigi haussmanniana, o della Londra di Sherlock Holmes, in cui uno spazio non esistente nella realtà diviene per volontà del ‘sogno collettivo’ riproposto nei luoghi descritti da Conan Doyle. Le città, afferma l’autore, sembrano allora ricreare se stesse, quasi imitare l’idea che collettivamente è stata diffusa dall’arte per somigliarne il più possibile.
In Hypercontextual Architecture (Architettura Ipercontestuale) Herrman presenta la parte progettuale dell’opera, caratterizzata da alcune strutture architettoniche rispondenti alle esigenze del contesto in cui sono state collocate. Le strutture sono state presentate di volta in volta a Madrid, Roma, Parigi e San Jose (CA), ma sono tutte caratterizzate dalla fluidità delle forme, dalla semplicità dei materiali da costruzione e della forte simbologia. Herrman intende fare in modo che queste forme dialoghino con lo spazio in maniera ipercontestuale, che interpretino le esigenze dei fruitori/osservatori e cambino forma e contenuto a seconda del linguaggio che devono trasmettere. Le strutture rappresentano quasi dei traduttori universali dell’architettura, delle entità simboliche in grado di mantenere costante il dialogo tra gli esseri umani e lo spazio, e tra le esigenze individuali di sogno, illusione e alterità e quelle collettive di culto, spostamento, esperienza e rappresentazione.
L’architetto diventa allora qualcosa di più di un professionista dello spazio: è un demiurgo, un interprete, un osservatore. Herrman sembra definire nella sua ricerca, al di là dell’interpretazione del passato e della sua riproposizione in chiave contemporanea, che le città del futuro saranno degli Ipercontesti, dei luoghi-non luoghi in cui ognuno di noi, ritrovando o riproponendo degli spazi individuali in perenne contatto/contrasto con i luoghi della collettività, avrà la capacità di far interagire il sogno ed il bisogno, l’inconscio ed il contingente, in una realtà in cui il tempo e lo spazio saranno sempre più simili, veloci e, soprattutto, umani.
Recensione di Fabrizio Dal Passo