Parkinson: la presenza contemporanea di alcune varianti genetiche rare aumenta il rischio di malattia
Sequenziato il genoma di 500 pazienti affetti da morbo di Parkinson. Identificati ventisei geni, sedici dei quali associati per la prima volta alla patologia. Lo studio condotto dall’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati Traverso” del Cnr di Napoli e dall’I.R.C.C.S. Neuromed è pubblicato su Molecular Neurodegeneration.
Una ricerca nata dalla collaborazione tra I.R.C.C.S. Neuromed e Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati Traverso” del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Cnr-Igb) ha evidenziato come alcune varianti genetiche rare, se presenti simultaneamente, possano esercitare un ruolo importante nell’aumentare significativamente il rischio di ammalarsi di Parkinson.
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Molecular Neurodegeneration, ha preso in esame i dati genetici di due tipologie di pazienti: quelli appartenenti a famiglie nelle quali la malattia di Parkinson è ricorrente e quelli in cui la patologia era comparsa senza che ci fosse familiarità (cosiddetti casi “sporadici”). Inoltre gli autori del lavoro hanno approfondito la ricerca esaminando, sia su tessuti umani che su modelli animali, l’espressione genica (il processo di trascrizione dell’informazione genetica in proteine funzionali). Cinque dei geni studiati sono risultati particolarmente espressi in neuroni dopaminergici della Substantia Nigra la cui degenerazione è la causa principale del morbo di Parkinson.
Struttura a spirale attorno a una stella giovane mostra l’origine di nuovi sistemi planetari
Lavorando sulle instabilità gravitazionali di una giovane stella, Elias 2-27, due giovani astrofisiche, Benedetta Veronesi, ricercatrice della Statale di Milano e Teresa Paneque-Carreno, visiting student presso lo stesso ateneo, stimano per la prima volta la massa dei dischi protostellari ricavando informazioni preziose per comprendere il processo di formazione dei pianeti giganti. Le pubblicazioni nell’ambito del network internazionale DUSTBUSTERS, coordinato dall’ateneo.
I pianeti si formano all’interno di dischi composti da gas e polvere, in accrescimento sulla stella centrale. Ma qual è la massa contenuta nel disco, e quindi disponibile per la formazione dei pianeti? Due articoli pubblicati oggi su Astrophysical Journal e Astrophysical Journal Letters da parte di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano sono riusciti a rispondere a questa fondamentale domanda.
La nuova generazione di telescopi e, in particolare, il radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimiter Array) nel deserto di Atacama in Cile, negli ultimi tempi ha rivoluzionato lo studio dei dischi protostellari e dei processi di formazione stellare e planetaria. Lo sviluppo di nuovi modelli teorici e numerici, e il confronto di questi modelli con le osservazioni ad alta risoluzione ottenute grazie alle nuove strumentazioni, sono gli obiettivi intorno ai quali è stato costituito il network di DUSTBUSTERS (Dust and gas in planet forming discs), un progetto coordinato dal prof. Giuseppe Lodato, docente di Astrofisica teorica presso il dipartimento di Fisica “Aldo Pontremoli” dell’Università degli Studi di Milano, e finanziato dal Programma quadro per la ricerca e l’innovazione, Horizon 2020.
Rischio diabete correlato al Covid 19
L’Ateneo fra i partner della ricerca pubblicata su Nature Metabolism e sviluppata dall’Ospedale Sacco, Ospedale San Paolo e dall’Università degli Studi di Milano
Il diabete e il prediabete possono essere alcune delle conseguenze a lungo termine del Covid 19. La scoperta arriva da una ricerca pubblicata sulla rivista “Nature Metabolism” e sviluppata dall’Ospedale Sacco, Ospedale San Paolo e dall’Università degli Studi di Milano con un team internazionale coordinato dal professore Paolo Fiorina che annovera fra i partner anche l’Università di Pisa e la Harvard Medical School.
Lo studio, che ha rivelato come si sviluppa il diabete correlato al Covid 19, dimostra per la prima volta che l’infezione virale può indurre insulino-resistenza e quindi deteriorare la normale funzionalità β-cellulare, alterazioni che possono portare ad iperglicemia persistente di varia gravità anche dopo la guarigione.
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