“L’uso dei dati satellitari genera un enorme miglioramento ed efficientamento delle ricerche sul campo - spiega la paleontologa Elena Ghezzo - eliminando quasi totalmente le aree dove non si trovano fossili esposti in superficie, ed arrivando al 60-90% di sovrapposizione tra i fossili reali e la stima generata dal computer con immagini satellitari ad altissima risoluzione”.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Geological Magazine della Cambridge University Press, ha sperimentato la metodologia su un’area conosciuta come Crystal Forest all’interno del Petrified Forest National Park, in Arizona (Stati Uniti), un’area di quasi mille chilometri quadrati ricca di fossili del tardo Triassico. Già da anni erano stati tentati diversi approcci per il tracciamento da satellite di aree fossilifere in questa zona ed altrove, risultando però poco efficaci e con un ampio margine di errore. Il metodo testato in Arizona invece, combina il monitoraggio da remoto e un’analisi computerizzata in cui vengono classificati segnali ottici omogenei, permettendo di eliminare falsi positivi e ottenere dei dati accurati sulla presenza di singoli fossili nell’area.
I ricercatori hanno dimostrato che è possibile individuare singoli fossili sulla superficie di una determinata area tramite l’utilizzo di immagini satellitari multispettrali, che utilizzano cioè non solamente la luce visibile ma anche l’ultravioletto e il segnale infrarosso.
Nonostante l’analisi sovrastimi ancora la presenza di resti esposti in superficie, è stato dimostrato che il metodo è in grado di restringere l’area di ricerca e aumenta il proprio potenziale se applicato a immagini da drone o iperspettrali, capaci di arrivare a risoluzioni enormemente maggiori rispetto al satellite ma limitate da costi e necessità di recarsi fisicamente nelle aree di ricerca.
Gli scienziati, inoltre, hanno individuato tre principali elementi che devono essere valutati con attenzione per massimizzare la performance del metodo. Questi hanno a che vedere con le caratteristiche dei fossili target da mappare (la dimensione, il tipo di fossile, la composizione minerale, ecc), le caratteristiche della superficie presa in esame (topografia, litografia, presenza di vegetazione) e lo strumento di rilevamento (la risoluzione spaziale e spettrale delle immagini).
Questi tre fattori rendono la metodologia estremamente flessibile, e quindi adattabile a praticamente qualsiasi tipo di ricerca nel campo della paleontologia, perché slegati da specifici periodi geologici o caratteristiche del fossile e del terreno. La ricerca è stata finanziata dal programma di ricerca e innovazione European Union’s Horizon 2020, all’interno del progetto REFIND (Marie Skłodowska-Curie Action, Global Fellowship).