Editoriale
Voglio che qualcuno fermi quei neutrini nella loro corsa folle per arrivare presto, molto presto, quasi subito, al traguardo. Per arrivarci – come sembra – prima della luce, che pure tanto piano non andava. Voglio che qualcuno li fermi, o quanto meno provi a intralciarli e rallentarli un po', così da farli arrivare con calma. Lo voglio per una serie di motivi, ma soprattutto perché sono stanco. Un po' anziano e stanco. Vi state chiedendo che c'entra la mia stanchezza con la corsa a precipizio dei neutrini? Be', se avrete la pazienza di arrivare in fondo a questo articolo lo capirete.
Tutto nasce dal fatto che della scienza mi sono innamorato presto, nella mia vita. Probabilmente in qualche indefinibile momento durante il corso del mio iter scolastico, verso i tredici o quattordici anni. Mi ricordo in particolare di un libro responsabile di questo innamoramento, un libro dove si parlava di natura, cioè di come sono fatti il mondo e l'essere umano, ma anche di scienza vera e propria, cioè di come si fanno le ricerche, gli studi, gli esperimenti, per scoprire come sono fatti il mondo e l'essere umano. E quella è stata la mia prima impressione della scienza che, come il primo amore, non si scorda mai: una serie di informazioni e di dati, strettamente unita alla conoscenza degli esperimenti eseguiti per raccoglierli, delle idee che li hanno guidati, e dei metodi che sono stati seguiti.
Crescendo, tutti questi concetti sono divenuti più dettagliati, completi, numerosi, e in pochi anni mi son fatto un'idea – credo – abbastanza buona di come è fatto il mondo e di come si fa ricerca: quanto meno in certi campi, perché per tutto sarebbe impossibile. Ma a questo punto è cominciata a succedere una cosa strana. Dapprima sporadicamente, poi sempre più spesso, alcune delle conoscenze certe già acquisite hanno cominciato a vacillare, a sfocarsi, a dissolversi, a trasfigurarsi, lasciando intravedere la necessità di essere sostituite da altre "nuove" o "più esatte". Diverse. E io, in buon ordine, mi sono adeguato.